Reazione dei nerazzurri non pervenuta tanto che, scherzando con Zenga, Lorieri dirà che avrebbe potuto accendersi una sigaretta nella prima frazione. Nel caso avrebbe potuto tenerla fra i denti anche l’unica volta che è stato impegnato con un’uscita di piede fuori area nemmeno troppo difficile. Nella ripresa, però, sembra un’altra musica con la squadra di Trapattoni che prova a salvare almeno la faccia buttandosi in avanti. Crippa salva sulla linea una conclusione maligna di Piraccini, Lorieri perde il cappellino utilizzato per proteggere gli occhi dal sole basso quando si tuffa per ribattere una forte punizione di Passarella, Altobelli manda la palla sulla parte alta della traversa con un colpo di testa. Il rumore del pallone che rimbalza sulla trasversale è il sinistro rintocco che fa capire come non sia il pomeriggio giusto per trovare almeno un punto. L’occasione mancata affievolisce progressivamente la spinta dei padroni di casa che, a parte due conclusioni fuori misura di Serena e Bergomi, non produce più nulla. I tifosi interisti non hanno nemmeno la forza di fischiare, i nostri fanno festa.
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Forse a San Siro siamo stati più belli altre volte (il pirotecnico 3-3 del 1985, l’immeritata sconfitta della stagione precedente), ma se non avessi già iniziato ad amare il Toro due anni e mezzo prima mi sarei innamorato quel giorno di una squadra che va oltre i propri limiti, che ha voglia, che prende Massimo Crippa dalla C e ne fa un baluardo del centrocampo, che, come farà notare Gritti mostrando giustamente i denti a fine partita, si ritrova alle soglie della zona Uefa dopo essere stata additata come candidata a retrocedere perché i tempi cambiano, ma si guardano sempre i nomi e non i giocatori. Una squadra che in quel pomeriggio pieno d’amore trova anche il modo, gustoso, di mettere il muso davanti a una Juventus male in arnese, ma pur sempre i rivali cittadini.
“Perché una partita fosse veramente memorabile a quei tempi (…) bisognava che venissero soddisfatte le seguenti condizioni: dovevo andarci con papà, dovevamo pranzare in un Fish and chips con un tavolo tutto per noi, dovevamo avere dei posti nella Tribuna Ovest Superiore (perché così puoi vedere il corridoio da cui escono i giocatori e puoi dare loro il benvenuto prima di tutti gli altri), tra la linea di metà campo e il North Bank; l’Arsenal doveva giocare bene e vincere con almeno due gol di vantaggio; lo stadio doveva essere pieno, o quasi pieno, il che normalmente implicava la presenza di una squadra avversaria di qualche peso; la partita doveva essere ripresa da ITV per “The big match” (…) e papà doveva essere equipaggiato per il freddo”. Con queste parole Nick Hornby, in”Febbre a 90”, definiva ciò che lo rendeva felice e pienamente realizzato da ragazzo quando andava a vedere l’Arsenal. Successivamente indicherà la vittoria 2-0 contro il Derby County, futuro campione, decisa da Charlie George come la gara in cui accadde tutto questo, ma poi aggiunge che è un errore perché quel 12 febbraio 1972 (quindi vicino a San Valentino) accadde qualcosa che non è la normalità, ma un anomalia, perché “la vita non è, e non è mai stata, una vittoria in casa per 2-0 contro i primi in classifica con la pancia piena di patatine fritte”. E la vita, la nostra vita, forse non è e non è mai stata una vittoria al “Meazza” scavalcando la Juventus, visto che dovremmo aspettare ventisette anni per rivincere lì, ma non importa in quel momento, perché rimane il 14 febbraio più bello per chi ama i colori granata. A come finirà quell’annata, a come finirà quella successiva, al pane duro che dovremo mangiare ci pensiamo un’altra volta.
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Classe 1979, tifoso del Toro dal 1985 grazie a Junior (o meglio, a una sua figurina). Il primo ricordo un gol di Pusceddu a San Siro, la prima incazzatura l'eliminazione col Tirol, nutro un culto laico per Policano, Lentini e...Marinelli. A volte penso alla traversa di Sordo e capisco che non mi è ancora passata.
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