Loquor / Torna l’appuntamento con la rubrica di Carmelo Pennisi: "Come sarebbe bello poterselo tornare a dire..."
“Faccio progetti solo per il passato”
A volte riesco ancora a rimanere stupefatto dai giochi di prestigio operati dai grandi giornaloni “mainstream” davanti ad un’opinione pubblica sempre più distratta e sempre più impaurita dai giornaloni “mainstream” stessi. L’occasione di questo mio inatteso stupore è un articolo pubblicato da Stefano Massini su “La Repubblica”, dove lancia urbi et orbi il suo grido di dolore per la cessazione degli spettacoli dal vivo operata dal governo italiano dall’inizio della pandemia da Coronavirus. L’inizio dello “storytelling” pandemico partì dal “dobbiamo provare a salvarci tutti” e dall'“andrà tutto bene”, che portò al blocco di mezza economia italiana tra il plauso generale; perché se si convince qualcuno come ormai la fine del mondo sia vicina non ha in effetti molto senso pensare al reddito, al lavoro, al senso della vita. Non ha molto senso pensare di salvaguardare consuetudini di enorme valore sociale ed esistenziale stratificatesi nel tempo e sotto gli occhi di generazioni di persone. “Primum vivere, deinde philosophari”, prima si pensi a vivere, poi a fare filosofia, era il ritornello imposto ad un’opinione pubblica bloccata dal terrore e dal dolore della perdita di propri cari ed amici. E allora si chiudano i cinema, i teatri, gli stadi, e tutto quello che fa socialità ed esistenza. In questi ultimi mesi si è vissuto come se non ci fosse un domani, come se il presente non servisse a creare premesse necessarie. Ma il problema non è solo economico, come giustamente Massini fa notare nel suo editoriale, perché “ogni giorno che passa, si vivrà come eccezionale l’idea di un congresso di anime assembrate in un altrove che non sia il domicilio. Mi preoccupa – continua Massini – la progressiva conversione di una normalità in anomalia”.
Che un persona del “mainstream” culturale si ponga finalmente il problema del “dopo” pandemia, è una notizia giunta talmente tardiva da irritare un po’. A volte non corrisponde a verità il famoso adagio “non è mai troppo tardi”, in quanto a volte, purtroppo, è proprio il “troppo tardi” il problema. Chi si occupa di cultura, di notizie, ha il sacro dovere di operare un “controcanto” alla politica, sovente esclusivamente attenta a interessi elettorali e a logiche di potere a dir poco opache. Mentre, negli ospedali e nelle case, malati e personale medico lasciavano la propria vita sul campo, gli intellettuali avrebbero avuto il dovere di provare a ragionare su quanto stava avvenendo nella gestione del dramma. Invece ci si è uniformati passivamente alle direttive di un governo, che come unica soluzione di gestione della crisi prevedeva di chiudere tutto ciò rappresentasse convivialità e socialità. A chi gli proponeva di chiudere i teatri sotto le bombe naziste, Winston Churchill aveva risposto con una delle sue celebri considerazioni fulminanti: “E se li chiudessimo, per cosa combatteremmo?”. Ecco, nei giorni drammatici in corso da mesi, è proprio questa fondamentale domanda ad essere stata assente, salvo rare eccezioni, nella classe intellettuale italiana: per cosa si sta combattendo?
Tutti a dire come lo sport senza la presenza della gente, non è più sport. Eppure lo sport ha proseguito e sta proseguendo le sue vicende senza la gente. Tanti genitori preoccupati, perché la mancanza di socializzazione dei loro figli sta provocando una modificazione in negativo dei loro modelli comportamentali. E cosa si vorrebbe fare in proposito? Qualcuno in possesso della necessaria autorevolezza vorrebbe spiegarlo? Riterrebbe opportuno trovare del tempo per farlo? Intanto i morti da Covid non cessano di esserci, e ci segnalano come la vita va avanti, nonostante l’esserci bloccati volontariamente al nastro di partenza dell’uscio delle nostre abitazioni. Perché la morte, ovviamente, è uno dei significativi indicatori che si è stati vivi. E allora si giunge al paradosso di sostenere come non ci interessi più il calcio, proprio mentre di calcio siamo intenti a parlare. Paradosso mentale procurato da un mainstream comunicativo che da mesi obbliga l’esposizione del riflesso condizionato della nostra paura e della nostra depressione.
Non ci sono, e non devono esserci alternative al riflesso condizionato del terrore da pandemia. Un venditore di materiale di merchandising sportivo, ha confidato come al momento riesce a vendere online solo sul mercato estero, perché in Italia il mercato si è completamente bloccato. “Se non avessi avuto lo sfogo del mercato estero la mia azienda sarebbe fallita, e la mia famiglia sarebbe alla fame”, è stata la sua considerazione avvilita. Questa piccola testimonianza, consegna lo spaccato di un Paese privo di qualsiasi entusiasmo, dove comprare una maglia della squadra del cuore è stato derubricato evidentemente a gesto superfluo, se non addirittura superficiale. Un particolare stato mentale può davvero giocare brutti scherzi. In filosofia ci si può domandare cosa sia la coscienza e quale sia la reazione intercorrente tra fenomeni mentali coscienti ed inconscio, ma avrebbe dovuto esserci un articolo di Repubblica o del Corriere della Sera a ricordarlo all’inizio del Covid-19. Ci voleva la classe intellettuale pronta a dibattere sull’argomento, prima che il Paese si piegasse irrimediabilmente sul suo dolore. Massini ricorda con forza come “lo spettacolo dal vivo sia un bene collettivo per cui vale la pena di combattere ad ogni costo”, ma purtroppo il drammaturgo e scrittore toscano, gestore di un fortunato spazio nel programma “Piazza Pulita” di Corrado Formigli, dimentica di stabilire quale sia “l’ogni costo” disponibile alla nostra soglia di accettabilità. Dimentica di ricordare “il prezzo da pagare” , nel bene e nel male, di ogni decisione. Se uno ha paura di morire o di veder morire un proprio caro, cosa mai gli si potrà raccontare sulla necessità di vivere? Andando bene ti riempie di contumelie, e basta.