LEGGI ANCHE: Gianni Infantino all'attacco del Brasile
Dobbiamo provarci, fino all’ultimo”. Sei in guerra, molti tuoi amici e parenti sono morti o rischiano di morire, e in quei frangenti tu sai quanto può valere farsi onore in una finale olimpica. Non importa se davanti hai Larry Bird, Magic Johnson, Michael Jordan o Charles Barkley, tu hai il dovere di provarci. “Ci mancavano gli sloveni, ci mancavano i serbi… con quei ragazzi eravamo cresciuti in tutte le rappresentative nazionali giovanili… avevamo coltivato desideri e obiettivi in comune, ma con lo scoppio della guerra tutto è finito in un attimo. Se incontravo Vlade Divac non potevo nemmeno salutarlo, si era in guerra e noi eravamo dei simboli. Vlade e Drazen erano compagni di stanza in nazionale, erano amici e si volevano bene. Dopo la scoppio della guerra non si sono più parlati per tutta la vita. Dovevamo prendere posizione, capisci? Eravamo dei simboli”. C’erano dolore, tristezza e incredulità nelle parole di Radja, e in quell’istante capii cosa veramente fa la guerra: sotterra ogni sentimento, ogni rapporto, ogni consuetudine quotidiana, lasciandoti solo al mondo nel bel mezzo di un orrore. Ricordo ancora gli sguardi di ammirazione verso Radja da parte dei passanti, no, quei giocatori non potevano veramente avere più rapporti amichevoli e di fratellanza tra loro: troppi massacri, troppa gratuita violenza, troppe distruzioni ormai avevano scavato fossati profondi tra loro. “Li avevamo scelti uno ad uno, sin da ragazzi, per portare avanti un progetto di sfida agli americani.
Volevamo dimostrare come il basket europeo fosse all’altezza di ogni sfida…- mi raccontò con grande rammarico Mirko Novosel, tecnico croato passato anche per l’Italia –prima o poi, ne sono convinto, saremmo riusciti a batterli”. L’audacia e il valore di sostenerla fanno parte della storia degli uomini, sono parte di un infinito che non ha sipario. “L’eternità è innamorata delle opere del tempo”, scrive William Blake, e mentre rileggo alla rinfusa gli appunti delle interviste fatte a suo tempo ai giocatori di quell’ultima nazionale jugoslava, mi riviene in mente la domanda di Sasha Djordevjc: “cosa vuoi da me”? Avrei voluto dirgli che mi sarebbe piaciuto vedere se quella squadra alla fine avrebbe battuto gli americani, che mi dispiaceva per tutto quel dolore insensato, che avrei dato non so cosa per rivedere ancora una volta un tiro da tre punti di Drazen Petrovic o un suo “uno contro ad uno”, che morire in un incidente stradale è figlio di un fato davvero stupido, che il rammarico è un peso assai più difficile da sopportare del dolore.
LEGGI ANCHE: Dopo il calcio gli arabi comprano il golf
E poi lo avrei messo al corrente di una considerazione fattemi un giorno da una importante ufficio stampa di origini croate: “semmai ce la farai a fare un film su di loro non solo renderai felice una nazione intera, ma da noi avrai eterna gratitudine. Non riuscirò mai a raccontarti cosa quella squadra ha realmente rappresentato per noi. La guerra ha distrutto tutto, però non è riuscita a farlo con i nostri ricordi. Quelli saranno per sempre con noi”. Pensiamoci bene prima di sparare un colpo di arma da fuoco o di augurarci che qualcuno lo faccia, pensiamoci veramente. Un giorno verrò a trovarti a Mirogoj, Drazen. Aspettami, perché ho tante cose da raccontarti.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
/www.toronews.net/assets/uploads/202304/e1b890e899df5c4e6c2c17d60673a359.jpg)
/www.toronews.net/assets/uploads/202508/2152c6c126af25c35c27d73b09ee4301.jpg)