Torna l'appuntamento con Loquor, la rubrica di Carmelo Pennisi: "L’ex allenatore del PSG lo si deve allontanare dal calcio a cagione di essere andato contro il suo spirito di opportunità di stare felicemente al mondo..."
“Smettere di dire vorrei e iniziare a dire lo farò”.
“Ai figli degli immigrati non possiamo promettere solo che un giorno diventeranno calciatori”, fu la risposta un po’ stizzita di Marine Le Pen di fronte alla solita domanda sulla condizione degli immigrati puntualmente posta dalla stampa quando davanti si trova un/una leader politico/a di destra. Ha senza dubbio ragione Zygmunt Bauman quando sostiene come l’immigrato postmoderno sia una “espressione di una mobilità infeconda, che produce repulsione, o nel migliore dei casi indifferenza, ma non attrazione”, ma evidentemente va contro la visione di Le Pen, che vede il calcio come una prospettiva fattibile rispetto al buco nero dell’economia informale o delle nicchie invisibili di quella marginale alle quali i migranti sembrano siano destinati, o addirittura condannati. Il calcio è una formidabile vetrina di fatti e sentimenti contrapposti, dove l’irrazionale sociale svela la vera natura del suo essere e finisce per diventare il pensiero vero e puro, privo di qualsiasi tipo di sovrastruttura. Quando un calciatore veste una maglia cessa, agli occhi dei suoi tifosi, di avere un passato, e torna nella condizione della verginità e dell’innocenza del “Giardino dell’Eden”, prima del compimento di qualsiasi peccato con relativa colpa da espiare. Non importa la tua religione, il colore della tua pelle, le tue tendenze sessuali e finanche se da adolescente sei finito nelle maglie della giustizia; lo sport più seguito al mondo è da sempre una sorta di legione straniera contemporanea: abbracci la causa del football e ogni retaggio passato e presente verrà accantonato.
In questo senso Le Pen ha ragione quando ricorda tra le righe della sua risposta come il calcio sia davvero troppo poco per creare integrazione tra i nuovi arrivati dal Mar Mediterraneo e coloro che un tempo non avevano avuto scrupoli a colonizzarli. Però questo troppo poco esiste e resiste in un mondo dotato di poca memoria, che se non ricorda ieri figuriamoci se può ricordare l’altro ieri dove la nazionale italiana campione mondiale nel '34 era composta addirittura da 7 giocatori immigrati. Quasi un paradosso nell’idea autarchica fascista. “Lo sport ha il potere di cambiare il mondo, e parla ai giovani una lingua che comprendono”, Nelson Mandela aveva capito lo straordinario valore dello sport, divisivo nel momento in cui le diverse maglie si affrontano, ma incredibilmente aggregativo quando in campo scende l’amore per il gioco. La gente, anche la più umile e la più inconsapevole, avverte la speranza che passa attraverso di esso, che non è il riscatto da chissà da quale condizione, ma piuttosto l’afferrare di avere diritto ad una porzione, anche piccola, dei sogni del mondo. E se qualcuno sta pensando come ciò sia una quota ridicola dell’esistenza, davvero non ha mai vissuto o avuto contatti con i margini del pianeta. Giochi in una “banlieu” parigina e la palla è rotonda come quella dell’adolescente opulento di Saint Germain e, come intuito da Mandela, suona esattamente lo stesso spartito: tutto è nei piedi e nella testa. Il calcio riesce a far intravedere quel che in questo momento in Francia gli immigrati hanno perso di vista, propone, convincendoti, l’idea di uguali possibilità.
La suggestione, infatti, non è dimenticarsi da dove viene la tua famiglia, quali siano le tue radici (il magrebino Zinedine Zidane, uno che ha fatto la storia del calcio, ogni volta che incontrava l’Algeria sperava in un pareggio), ma avere finalmente l’idea di poter camminare sulla stessa strada di chi un tempo ti ha colonizzato. Il calcio lascia aperto uno spiraglio anche quando i figli degli immigrati schierati in campo con la maglia dei “Bleus” rifiutano di cantare “La Marsigliese”, perché non è compito di questo sport azzerare la memoria e le radici. Anzi, esso tendenzialmente fa esattamente tutto il contrario, nonostante il tentativo di radere al suolo il suo ethos originario da parte di fondi americani o satrapi arabi in giacca e cravatta con formazione oxoniana. “Non ti viene mai regalato un sogno senza la possibilità di realizzarlo”, scrive acutamente Richard Bach, un acume smarrito da Christophe Galtier, colpito da accuse di discriminazione “basata su una presunta razza o affiliazione religiosa”. Il caso, se le accuse dovessero essere confermate da oggettivi riscontri, è più grave di quanto possa apparire, perché sembra racchiudere molte delle problematiche che stanno mettendo in questi giorni la Francia in mano a disordini dal sapore pre rivoluzionario. Tutto parte dal desiderio della politica francese di superare “l’integrazione” per procedere verso “l’assimilazione”, ovvero lo spogliare di ogni alterità i residenti provenienti da una estrazione etnica diversa, cancellando ogni differenza con il resto della popolazione. “Vasto programma”, direbbe Charles De Gaulle, e l’insistere con il voler eliminare a tutti i costi le differenze, per evitare il rischio di passare dalla libertà di opinione, magari anche grossolana e sciocca, alla violenza di opinione, rischia di far piombare tutto in uno psicodramma dal quale sarà molto difficile uscirne, se non con una pacificazione forzata con rancori coltivati in eterno sottocenere. Il calcio, si sa, è il regno incontrastato delle differenze, visto come sia fondato sull’amore, che a volte può diventare una forma di pregiudizio verso chi quell’amore vuole soggiogarlo, vincendolo sul campo.
Facile, in questo contesto, trovare una persona seriamente e sciaguratamente convinta di fare il bene di una città (Nizza) ponendosi il problema se ci siano troppi islamici o “neri” in squadra, e di ritenere giusto di tenere in panchina i giocatori islamici durante il “ramadan”. Tutte accuse al momento respinte dall’allenatore francese, ma che comunque gli sono costate il posto di allenatore al Paris Saint Germain e un arresto di 24 ore da parte della polizia. “Un pensiero intelligente si addormenta in un orecchio stupido”, sentenzia il buon William Shakespeare, ed è proprio questo far offuscare l’intelligenza dai rumori raccolti a strascico dall’udito il problema centrale del nostro tempo. Le orecchie modulano in varie direzioni per raccogliere umori e opinioni, ma alla fine finiscono solamente per afferrare pulsioni, sorde ad ogni visione d’insieme o di futuro preconfezionato dalle élite per immaginazioni funzionali ai loro interessi. Succede, quindi, come nella Francia scandalizzata dai presunti comportamenti discriminatori di Galtier, il sindacato dei metalmeccanici si sollevi con rabbia di fronte a 200 operai italiani trasferiti da Melfi allo stabilimento “Stellantis” di Vesoul, nel dipartimento dell’Alta Saona, sancendo la scelta del colosso franco/italiano di combattere le crisi cicliche del settore automobilistico delocalizzando la forza lavoro. Si torna al dispregiativo “macaronì”, con cui i francesi nel loro intimo ci vedono da sempre, corroborati da articoli di giornali scritti con questo tenore: “in città si riconoscono (gli italiani) dai vestiti invernali come se stessero sciando, cappello all’altezza delle orecchie, grande piumino chiuso fino al mento”. Il razzismo offusca le menti anche in chi fa lavori intellettuali, come scrivere articoli, e su questo non si può far niente: non si può eliminare la stupidità, essa anzi ha il diritto di esistere e di non essere discriminata. Pretendere di eliminarla sarebbe un tentativo sciocco simile al cercare di trattenere la sabbia tra le mani.