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Gattuso e Zidane: una patria nel cuore

Carmelo Pennisi
Carmelo Pennisi Columnist 
Torna Loquor, la rubrica di Carmelo Pennisi:: "L’idea di casa e di appartenenza allontana l’urgenza di guardare in faccia all’infinito di ogni via"

“Se sono stato cacciato da un paradiso,

 come posso darne notizia”?

Ibn Hamdis

“Mio padre il caldo lo aveva solo nella metro, perché aveva sempre freddo”. Smail Zidane nel 1955 lavorava come muratore nei cantieri della “Seine-Saint Denise”, dove, se vieni dal deserto libero dei berberi, anche il sole può sembrarti un freezer dove mettere in ghiaccio il cuore in attesa del giorno del ritorno in Algeria, dove il mare arriva fin dentro le case, per poi fermarsi davanti al deserto, per poi ritornare indietro ai suoi venti e alle sue correnti. Lì il sole non è pallido ricordo di una calura che brucia le ossa, ma mai la voglia di libertà. Lì il sole timbra l’anima di odore di caffè e le note “chaabi”, la via algerina della strada della nostalgia. Smail lavora mattone su mattone contribuendo a far venire su la nuova Francia, quella che non vuole solo integrare gli immigrati ma assimilarli. Ancora non sa che non se ne andrà mai via da lì, e non sa nemmeno che un giorno a “Saint Denise” sorgerà uno stadio dove la suo figlio Zinedine segnerà l’unico gol della sua partita inaugurale. La vita degli immigrati è quella della nostalgia e dell’ignoto, è partire verso luoghi per loro stessa natura ostili ad ogni immaginazione. E’ rivolta, è antitesi hegeliana, è mondo in bianco e nero in attesa che diventi a colori… forse. Per ogni credente la vita è stare in esilio, ma a volte è filosofare origliando attraverso l’infinito che ci sfugge e può corrodere. L’idea di casa e di appartenenza allontana l’urgenza di guardare in faccia all’infinito di ogni via: le nostra mura non solo un rifugio, sono anche il perimetro oltre il quale saremmo costretti a farci delle domande. Smail incontra Malika, la sposa e dimentica per sempre il perimetro originario. Stare in mare aperto diventa un’abitudine, e con la sua anarchia apolide il mare gli consente di dare la possibilità a Zinedine non di diventare francese, quello lo è dal momento della sua nascita, ma di sentirsi come tale. “Il pallone l’ho sempre accarezzato. Non è un problema di addestramento, è sempre stato così sin da quando l’ho incontrato da bambino”, dice oggi  Zinedine Zidane con lo stesso incanto del suo ieri da infante, allorché la Francia entrava nel suo cuore per non andarsene mai più. Gennaro Gattuso invece il pallone lo ha arpionato sin da quando l’ha urtato la prima volta.

Il mondo visto dalla Calabria è il fondo di un pozzo dal quale risalire diventa diritto di cittadinanza, in un Paese che ti ha sempre quasi considerato quasi un fastidio da sopportare. Essere quasi un immigrato a casa tua e sentire una scossa scorrere lungo le tue vene quando partono le prime note di “Fratelli d’Italia”, è quella sensazione curiosa che viene a chiunque sia nato e cresciuto nel fondo dello “Stivale”: sei venuto al mondo in luogo considerato una sorta di centro di accoglienza sin da quando Giuseppe Garibaldi fu ferito sull’Aspromonte, eppure vuoi essere italiano a tutti i costi e contro ogni rifiuto, anche quando sei stato costretto ad andartene in Scozia per cercare di abbreviare il percorso di affermazione nel calcio. Questo sport può essere una moneta con cui pagare la fuoriuscita dall’emarginazione, il bel tempo contro gli uragani di cui parlava Corrado Alvaro a proposito della storia degli italiani. Lo scrittore,uno dei più grandi mai avuti nel nostro Paese, è conterraneo di Gattuso, e c’è molta verità nel suo dire che “i calabresi mettono il loro patriottismo nelle cose più semplici”. Sedersi sulla panchina Azzurra deve essere stato per l’ex giocatore del Milan un ritorno alla leggenda dell’infanzia, quando a quattro anni deve essere stato sballottato, come tutti i bambini di quell’epoca, dagli adulti ebbri di felicità per la vittoria dei mondiali spagnoli ottenuta dagli Azzurri capitanati da Enzo Bearzot. Chi c’era sa come non ci sia stata gioia più grande nella storia italiana recente. Un dono inaspettato che fa scendere nelle strade dalle Alpi a Lampedusa, e la frase, in mezzo allo sventolio di tanti tricolori, a quel punto viene su spontanea: e che Italia sia. Il patriottismo semplice di cui parla Corrado Alvaro si afferma, coniando gli italiani di nuovo vigore e di un nuovo Risorgimento. Sei ancora un emigrante in casa tua? Chissà. Zinedine Zidane ritorna a “San Denis” la sera del 12 luglio del 1998, e guida i “Blues” contro il Brasile di un malconcio Ronaldo: è la finale dei Campionati del Mondo di calcio. Non ci sono più i mattoni di Smail da mettere uno sopra l’altro, c’è “La Republique” che trattiene il fiato in attesa di far suo il primo mondiale di calcio della sua storia. Non c’era riuscita la generazione d’oro capitanata da Michel Platini, un altro figlio di immigrati in cerca di identità, e ora la svolta storica è davvero ad un passo. Al 27esimo Zinedine fa gol con un colpo di testa così potente da essersi sentito fino in Algeria, e Smail a quel punto deve aver istintivamente ringraziato Allah per aver resistito alla tentazione di prendere la nave da Marsiglia, e andarsi così a riprendere il suo sole e il suo deserto. Il calcio è arte che ristora e sanifica equivoci, l’essere rito lo sacralizza ogni volta che ne si avverte il bisogno, e nel nome di quest’ultima cosa Zinedine al 46esimo di quel magico primo tempo della finale mondiale mette a segno la seconda rete e sempre di testa. La Francia a quel punto sa di aver ripreso la Bastiglia e il Presidente Jacques Chirac abbraccia tutto ciò che può abbracciare nella Tribuna d’Onore dello “Stade de France”. Probabilmente Smail piange, stringendosi in un plaid che lo tiene a riparo dal freddo pure il 12 luglio: suo figlio ora è veramente francese… oppure no? Il chicco tostato diviene polvere nei bar di Algeri, e da qui prende vita il “Mazagran”, un caffè freddo con ghiaccio, zucchero, succo e fetta di limone. Si brinda nella calura notturna, un po’ meno rovente di quella diurna, e si è tutti convinti come Allah, che tutto vede e sovrintende, abbia voluto nella sua infinita saggezza provvedere di dare gioia alla Francia, despota e colonialista, proprio attraverso le prodezze di un algerino. Sono loquele da bar, ma quando il popolo parla a volte ha il potere di farti sentire incompleto pur sei arrivato in cima al mondo.

Quindi alla domanda del Veltroni juventino se un giorno tornerai alla Juve come allenatore, il sorriso imbarazzato tradisce l’incompletezza ma la risposta è pronta: “nel futuro mi vedo sulla panchina della Francia”. Quando ha preso l’Italia distrutta dalle troppe ambizioni di Luciano Spalletti, Gattuso sapeva benissimo di accollarsi la responsabilità di una impresa disperata. Evitare la terza eliminazione di fila dalla fase finale di un mondiale rimane tuttora un compito improbo, perché se siamo stati eliminati dalla Macedonia del Nord in uno spareggio, è chiaro quanto a maggior ragione una Scozia o una Ungheria possano fare ancora più paura. Ma intanto ai playoff  “Ringhio” la truppa Azzurra l’ha portata, istillando amore per una maglia e un Paese difficile da rintracciare nello scetticismo diffuso contemporaneo. “Se non porterò l’Italia ai mondiali andrò a vivere molto lontano”, ha detto nella conferenza stampa  post Italia Israele, e questo sì sarebbe un vero tormento. Il “patriottismo semplice” gli adombra il viso da lottatore, da ultimo ad arrendersi in quella zona  del campo dove tutto nasce e tutto può morire: non può nemmeno prendere in considerazione l’idea di non portare l’Italia ai mondiali americani. Nell’emigrare hai assunto sicurezza e hai trovato moglie, per poi tornare e realizzare il sogno più grande di ogni calciatore: vincere un mondiale. Sedersi sulla panchina dell’Italia del calcio per un meridionale è un onore che non si può descrivere, e sarebbe inutile provare a trovare parole da non potersi trovare.

Si lascia un posto per andare in un altro posto, questo è stato il destino di molti nati in quella parte dell’Italia. “So che c’era gente più brava e con più esperienza di me, quindi ringrazio il Presidente Gravina di avermi chiamato… l’ho preso come un peso, come una responsabilità”, il completo scuro di Armani gli stringe il collo e l’anima, mentre cerca di far capire che lui, l’emigrante, non lascerà nulla d’intentato per rendere nuovamente felice il proprio Paese. Gennaro Gattuso e Zinedine Zidane sono figli del Mediterraneo, un mare difficile e complicato, pieno di storia e di sogni realizzati e perduti. Sono la “banlieu” di un gioco che prende cuore, anima e cervello. “La verità è nel mare, perché non ci fa sentire più terra sotto i piedi”, scrive Albert Camus, uno che il calcio lo ha amato e lo ha capito. Il giorno in cui Zinedine realizzerà il suo sogno di sedersi sulla panchina di Francia, quello sarà il momento in cui Smail, oggi novantenne, potrà definitivamente salutare la nave per l’Algeria, conscio di non averne più bisogno nemmeno come tentazione. Sarà un bel giorno, e chiunque sia stato emigrante lo può capire fin troppo bene. Sono stato cacciato, ma sono ritornato: ed è per restare, finalmente.


Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.

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