Torna l'appuntamento con Loquor, la rubrica a cura di Carmelo Pennisi
Torino-Juventus non sarà mai una partita normale, quale che siano gli obiettivi e le forze reali in campo nel momento in cui quell’evento si gioca. O almeno così fino ad un certo punto della storia del calcio è stato. So bene come in Italia tutti si sentano avversari dei bianconeri, perché questi sono un simbolo con cui la famiglia italiana più nota nel mondo, gli Agnelli, hanno in qualche modo tenuto a ribadire il loro ruolo guida delle vicende italiane, e quindi il peso del loro potere. Ma alle altre squadre, per quanto vogliano ergersi a ruolo di novelli Annibale contro lo strapotere del neo potere romano in salsa bianconera, manca quella cosa fondamentale posseduta dalla squadra granata, quel bene inestinguibile e primario che da sempre gli regala sofferenza e gloria: alle altre manca avere radici a Torino. “Se siamo in esilio, vogliamo serbare ogni piccolo ricordo delle nostre radici”, scrive Paulo Coelho, nel tentativo di ricordare al lettore come da qualche parte provenga la sua storia, persa nella polvere del tempo trascorso, ma sempre pronta a rivenire su se setacciata con i giusti strumenti della memoria.
Avere le stesse radici della Juventus, per il Toro, ha voluto dire cercare una sua collocazione nel mondo con un solo unico vantaggio: aveva davanti a sé l’esempio di tutto ciò che non avrebbe mai voluto essere. Ogni giorno, in ogni piazza, in ogni via, in ogni anfratto di una delle più belle e significative città d’Italia: Torino. E prendere la linfa vitale dalle stesse radici, porta a conoscere meglio di chiunque quale sia la reale forza e cattiveria di Caino, e quanto sia importante combatterlo. Non importa se lui sia pronto sempre ad ucciderti, perché impotente di fronte al suo desiderio di annientamento di qualsiasi ostacolo gli si presenti davanti. Negli spazi della città piemontese, angusti o ampi che siano, Abele è costretto da Caino a interrogarsi sulla sua fragilità e sulle sue pene, è obbligato a trovare le giuste motivazioni per resistere. Perché condividere con Caino le stesse radici da inevitabilmente un segno di malessere, fa faticare a capire perché il mondo va sempre in un altro modo, e non come vorresti che andasse secondo gli input del tuo cuore. I giocatori che un tempo giungevano al Torino, ci mettevano poco a comprendere la reale consistenza di questo malessere, e presto imparavano a rispettarlo. Erano, i giocatori, professionisti anche nel tempo che fu. Paolo Pulici non aveva niente da invidiare ad un Suarez di oggi in quanto a professionismo, giocava per passione e giocava per soldi. Giusto così. Ma quel malessere della condivisione delle radici con Caino lo onorava ogni volta che scendeva in campo nel “Derby delle Mole”, mettendo il suo vigore e le sue gambe al servizio di un’idea, ovvero che non siamo nati per subire l’ineluttabile. Condividiamo le stesse radici, ma non potrai mai costringermi ad essere come te. “Io non sono te”, dice Stefano Torrisi al difensore bianconero, che invano tenta di impedirgli il tiro al volo nella porta di Dino Zoff, nel finale del destino dei tre minuti e quaranta secondi di gioco effettivo tra i più leggendari della storia del calcio. In quel tiro del Derby del 27 marzo del 1983, Torrisi spezza una catena e manifesta ai tifosi granata l’intenzione di tenergli compagnia in quel malessere da radici comuni con Caino.
Comprendere la diversità di una maglia rispetto ad un’altra dovrebbe essere una delle componenti principali della professionalità di un giocatore, nell’indossarne una piuttosto che un’altra cambiano le regole d’ingaggio emotivo. Ma forse quest’ultima considerazione è diventata roba di altri tempi, dove il calcio era ancora la manifestazione di un’idea e non di un consumo dettato dalle leggi del marketing e dalle conseguenze della “Sentenza Bosman”. Dal 1995, cioè da quando la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha stabilito essere un contratto e non un diritto di proprietà il rapporto tra calciatori e club, il “Filo d’Arianna” con cui i giocatori si orientano nel labirinto del sport più seguito al mondo, è stato messo nelle mani della potente categoria dei procuratori. E qui Abele ha cominciato davvero a vacillare di fronte a Caino, dato che il diritto della città, quindi delle radici, è stato sostituito con il diritto del mercato dei capitali. I giocatori progressivamente hanno smesso di avere come punto di riferimento una regola d’ingaggio emotiva, andando a sostituire all’appartenenza alla maglia, la filosofia di un contratto a seguire nel futuro. Non c’è una sofferenza e una diversità da onorare, non ci sono catene da spezzare in nome e per conto dei tifosi. Il contratto sempre più remunerativo ha, di fatto, abbattuto la necessità di avere persino un tetto.
I giocatori pro tempore del Toro abbandonano il “Derby della Mole” al suo destino, e lo retrocedono al rango di partita qualunque, magari da metterci un po’ di impegno in più, ma non tanto di più. Le ferree regole dei contratti di oggi non prevedono impegni emotivi sulle radici. Qualsiasi esse siano. E i tifosi del granata rimangono nella solitudine della loro malinconia. Non c’è più Paolino Pulici, non c’è più Eraldo Pecci (che continua ad amarli fin nel profondo del suo cuore), non c’è più Leo Junior a guidare la carica contro quel bianconero sempre più proiettato verso i destini siderali di un eventuale campionato europeo per club. Ma se non si è mai stati a contatto con loro, con i tifosi della squadra più enigmatica del mondo, non si può proprio capire perché, nonostante i calciatori contemporanei siano indifferenti al loro malessere, continuino a resistere ancora di più che i ragazzi della “Via Paal” di Budapest a difesa del loro “Grund”, del loro spazio vitale in mezzo alla speculazione edilizia della capitale magiara.