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Prendendo in esame la questione “attrezzo” (racchetta) è facile, per chiunque realmente conosca il gioco (ma temo che fra poco dalle nostri parti si subirà la mutazione genetica scaturita dall’America’ Cup di “Azzurra” o del “Moro di Venezia”: tutti velisti provetti e pronti alla “strambata” nel traffico cittadino), cominciare a dare qualche punto a favore di Adriano Panatta. Il tennista romano giocava con una racchetta di legno, molto più pesante di quelle attuali in graphite e, soprattutto, con una differenza dell’ovale passata dai 440 cm quadrati ai 630/640 cm quadrati di oggi. Alla comparsa dei “racchettoni” il commento fu unanime: “la mega racchetta farà ottenere risultati nel circuito ATP anche ai brocchi”. Per buona pace di coloro ossessionati dal “boomerismo” e dal “passatismo” è esattamente ciò che è accaduto, proiettando il tennis in una dinamica di eccessiva essenzialità basata sostanzialmente sul “servizio” e sulla potenza dei colpi, facendo diventare lo “slice” e il “top spin” alla portata di tutti e colpi di velocità impressionante anche quelli non scaturiti dal centro delle corde (cosa impossibile con le racchette di legno dall’ovale stretto, dove i colpi dovevano essere puliti e lo “slice e il “top spin” disponibili solo a chi avesse realmente del talento). Rispetto all’epoca di Panatta oggi il gioco è “dopato” dal cambiamento dell’attrezzo, che ne ha cambiato per sempre le prestazioni mistificandole. La raffinatezza sapienziale del couturier è stata sostituita dalla potenza monotona del boscaiolo (“guarda che missile ha sparato Sinner, Adriano, guarda che missile!”, era il refrain entusiasta del telecronista di Rai2, incurante di stare trasformando in un clima da “Maracanà” una partita di tennis), non si devono fare molte cose per eccellere (oggi quasi nessun tennista della “top ten” sa fare una demi-volèe decente e si assiste ad un gioco di volo a tratti imbarazzante) ma solo saper “menare” la pallina a più non posso e determinare “servizi” a 240 chilometri all’ora praticamente impossibili da ribattere, se non malamente. Sarebbe stato il paradiso di Roscoe Tanner, il “Bombardiere di Chattanooga”, il ragazzone del Tennessee tutto “servizio e risposta” (cosa anomala nel tempo in cui giocava) che sul finire degli anni 70 si elevò al 4 posto del ranking mondiale ma senza mai essere capace di vincere uno “Slam”. Fu più fortunato Ivan Lendl, uno dallo sguardo eternamente corrucciato da ex guardia di confine del “Muro di Berlino”, giunto una generazione dopo quella di Tanner e in piena esplosione del racchettone in graphite.
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Il tennis stava cambiando e il suo gioco da “cecchino”, molto simile a quello del nostro Sinner, gli fruttò otto titoli dello “Slam”, anche se non riuscì mai ad afferrare quello di Wimbledon. Il gioco passato per le mani di Bill Tilden, Don Budge e Rod Laver, aveva definitivamente alterato, causa attrezzo, il concetto di talento. Una cosa simile era successa nel baseball, con l’introduzione delle mazze di alluminio al posto di quelle di legno, provocando una salire di 20 punti le medie di battuta e addirittura il raddoppio degli “home run” (i fuori campo), facendo giungere tutti gli osservatori ad una analoga conclusione: la tecnologia stava sostituendo il talento dei giocatori, il gioco si stava progressivamente impoverendo (questo fenomeno sta accadendo da anni anche in “Formula 1”) e, soprattutto, stava diminuendo. La mazza di alluminio, analogamente al racchettone in graphite, era capace di trasferire più energia ingiustificata su ogni colpo, e quindi lo stato maggiore del baseball americano ebbe la forza di fare quello che al tennis non è riuscito: abolire le mazze di metallo e fibra e tornare precipitosamente al legno. L’origine, la qualità e i motivi per cui il gioco va in scena sono molto più importanti della ricerca forsennata della vittoria tramite la tecnologia. In ciò risiede la differenza culturale tra “progresso” e “totalitarismo muscolare”, e purtroppo lo sport contemporaneo sta contribuendo a far trionfare la seconda visione. Una società in procinto di entrare acriticamente nel mondo dell’Intelligenza Artificiale di massa, con difficoltà può capire che il Panatta del 76, con i nuovi attrezzi e le moderne tecniche di allenamento del 2023 (nutrizionista e mental coach compresi) probabilmente arriverebbe a vette a cui Sinner, a mio parere, non arriverà mai. Si tratta di talento e attitudine, uniche cose da poter contrapporre al concetto di potenza e di ricerca ossessiva del controllo tramite la tecnologia. Non è una guerra tra “passatisti” e “futuristi” (solo i sessantenni che scimmiottano i trentenni possono vederla così), ma provare a capire, usufruendo della lezione del baseball, cosa si voglia esattamente dal futuro. In bocca a lupo, quindi, a Jannik Sinner, a Carlos Alcaraz, a Holger Rune, anche se sto già rimpiangendo Roger Federer. Era tra i pochi ostinati a giocare ancora a tennis, capace di distillare varietà di colpi e di accelerazioni di potenza e sapienza tattica. Quando si ama uno sport, e si crede in esso, si deve essere in grado di riconoscerne le ragioni e le origini, e avere poi la forza etico/morale di difenderle. Tutto il resto è futurismo modaiolo da accatto e sbornia da evento mediatico.
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Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.
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