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Tornare in patria e raccontarlo per tutta la vita finché si ha fiato e un cuore a reggerlo, e nessuno mai lì a rimproverarti di aver perso contro gli artisti del calcio a casa loro. Il cielo con un dito lo si tocca anche così, e che magnifica roba è questo sport da poterti regalare un giorno del genere. I dirigenti della federazione uruguagia, pochi minuti prima della finale, entrano negli spogliatoi e auspicano una sconfitta onorevole, forse perché spaventati dalle urla dei 200.000, ringraziando i giocatori di essere comunque giunti a giocarsi quel giorno. Varela scatta in piedi parlando forte, quasi a coprire il vociare di tutte quelle persone convinte di stare preparandosi per un carnevale inedito: “quelli là fuori non esistono”! e poi, voltandosi verso i suoi dirigenti e assumendo un tono di voce di una assertività impressionante, disse senza possibilità di replica: “non ci sono rese onorevoli in questo sport, in un campo di calcio devi essere pronto a uccidere o a morire”. Aveva ancora negli occhi i festeggiamenti a Montevideo per la vittoria dei mondiali del 1930, un popolo ubriaco di felicità proteso ad accogliere i suoi eroi. Voleva tornare a Montevideo con la “Coppa Rimet” ed essere eroe per la sua gente, ragguagliare in eterno ai suoi affetti le motivazioni che portarono all’impresa. Ma davanti c’era il Brasile, cartolina di un popolo che con il pallone ci va persino a letto dopo averlo spolverato dalla sabbia delle sue interminabili spiagge. La mattina del 16 luglio il quotidiano “O Mundo” aveva sovrastato una foto della squadra brasiliana con un titolo ignaro dell’esistenza della scaramanzia: “Questi sono i campioni del mondo”. Il capitano de “La Celeste” ebbe una smorfia di disgusto nel vederla, qualche anno dopo confiderà in una sua autobiografia la sua totale diffidenza verso la stampa. “le uniche due cose vere di un giornale sono la data e il prezzo”. Quasi un paradosso per uno che a 8 anni, per aiutare la madre lasciata sola da un marito in fuga dalle sue responsabilità, vendeva giornali davanti agli hotel e agli angoli delle strade. Qualche pesos per migliorare un po’ la sua vita e poi via, a correre a giocare a pallone ovunque fosse possibile. Eduardo Galeano e Osvaldo Soriano(fuoriclasse quasi inarrivabili delle vicende di sport) racconteranno quel che poi è stato affidato alle cronache. I brasiliani si schierano in un asfissiante pressing offensivo(già, esisteva anche allora, solo che i carioca non hanno mai detto, come qualcuno, di aver cambiato la storia del calcio), l’allenatore uruguagio, di contro, schiera la squadra come più o meno farà in seguito il Mourinho del “triplete” nella semifinale Champions del “Camp Nou” contro il Barcellona nel 2010. Annibale , nella “Battaglia di Canne”, non avrebbe saputo fare meglio. I brasiliani si smarrirono all’interno di un imbuto incomprensibile per la loro fantasia, anche se per un attimo si illusero di portarsi a casa la coppa, considerando come gli sarebbe basato un pari. Ma il narciso in agguato in ognuno di noi a volte deborda e il Brasile vuole a tutti costi lo scalpo dell’Uruguay, mira ad una festa completa di annientamento dell’avversario.
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Non avevano considerato l’esistenza del destino avverso, appalesatosi quel 16 luglio sotto la forma di Alcides Ghiggia: dribbling sulla fascia destra, solita mancanza di senso della posizione dei portieri brasiliani, lato sinistro della porta carioca lasciato completamente sguarnito, pallone in rete. “la fusione della fantasia e della estrema concretezza uruguagia”, scrisse Gianni Brera, avevano consegnato la “Coppa Rimet” agli sfavoriti, sotto lo stupore dello stesso Jules Rimet e del Maracanà ammutolito. Sulle scalette dell’aereo che aveva riportato gli eroi a Montevideo, Obdulio Varela, tra l’entusiasmo della gente accorsa all’aeroporto, prese una decisione quasi inspiegabile: indossò un impermeabile, rialzò il bavero e fece scendere un cappello fino al naso, riuscendo così a passare inosservato tra la folla. Qualche anno dopo racconterà di essere andato in un bar di Rio De Janeiro, dopo la finale, e di essere stato riconosciuto da un tizio grande e grosso che non finiva di piangere per la sconfitta. “Ho pensato che mi avrebbe ammazzato, invece mi ha abbracciato continuando a piangere. Subito dopo mi ha detto: “accetti di bere un bicchiere con noi? Vogliamo solo dimenticare, capisci?”. Come potevo dirgli di no? Loro avevano preparato il carnevale più bello del mondo e noi avevamo rovinato tutto, non ottenendo niente. Avevamo un titolo, ma cosa importava in confronto a tutta quella tristezza”? Il calcio ha regalato storie infinite e alla vigilia del prossimo campionato mi illudo di poter fare una considerazione ai giocatori: ricordate che siamo solo noi tifosi e voi. Niente presidenti, niente procuratori, niente allenatori, niente giornalisti, niente glamour a circondarvi(loro non esistono). Solo noi e voi, e niente altro. Onorate il calcio riappropriandovi di esso, se potete, e resterete nella storia di chi vi ha visto e dei loro discendenti. Non conta niente altro. Fidatevi.
Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.
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