“Morire è solo non essere visto”
loquor
Quarant’anni dall’Heysel: non dimentichiamo
Fernando Pessoa
Per la Juventus la massima competizione continentale per club è sempre stata una via di mezzo tra un desiderio continuamente inevaso e un incubo, ma il 29 maggio del 1985 la rincorsa alla Coppa dei Campioni divenne una tragedia di cui è davvero difficile parlare. “Non si può morire per una partita di calcio”, quante volte si è sentito questo epitaffio, con il tempo affinatosi come algoritmo del dolore dal quale il calcio non riesce ad uscire. Troppe sono state le morti in nome della passione e dell’amore per una maglia, e anche se fosse stata una sola sarebbe stato comunque troppo. Gli italiani che c’erano ricordano ancora la voce piegata e costernata di Bruno Pizzul, costretto ad andare avanti con un telecronaca che non avrebbe mai voluto fare. Solo chi ha un senso del dovere elevato e il rispetto per una professione, poteva proseguire cercando di trovare le parole giuste per non aumentare l’angoscia in Italia delle famiglie dei tifosi juventini situati in quella maledetta “Curva Z”. Fa male, molto male, ricordare le immagini della curva devastata, dei nostri connazionali, davanti alla vista del rosario di morti stesi per terra, con le mani sopra ai capelli. Dei ragazzi si avvicinano alla postazione di Pizzul, e gli rivolgono una richiesta che strazia il cuore: “la prego… ci faccia dire i nostri nomi in diretta… vogliamo far sapere ai nostri genitori che siamo ancora vivi”. Disgraziato Belgio, ancora lui, dopo i 136 minatori italiani morti nell’incidente nella miniera di carbone di Bois du Cazier, ora si è portato via altri italiani. Pizzul conferma, con voce ferma ma disagiata, che l’Uefa ha confermato ufficialmente come ci siano 36 morti, ma al conteggio finale saranno 39, di cui 32 italiani.
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“Vedevo la gente che vagava in preda alla confusione e al terrore- ricorda il giornalista de “La Repubblica” Fabrizio Bocca -, e la sensazione era quella di come fosse appena scoppiata una bomba all’interno dello stadio”. Il corpo senza vita della diciassettenne Giuseppina “Giusy” Conti viene fermata in una foto, che ti ricorda istantaneamente le urla di dolore inchiodate su “Guernica”, la tela di Pablo Picasso che è una denuncia senza tempo di quanto l’uomo possa diventare una bestia feroce nel nome di una idea o di una convinzione. Anche se all’Heysel c’è stata qualcosa di più della ferocia, ad essa si assommata una indifferenza agli accadimenti della vita, un fare senza un perché logico, tipico di questa modernità nichilista per convinzione a volte anche entusiasta. “A un certo punto ho creduto di morire… ero lì, in mezzo alla curva maledetta, mentre gli inglesi ubriachi avanzavano roteando cinture piene di borchie di metallo… nella ressa sono caduto su un mucchio di morti, altra gente mi si è accalcata sopra, quasi non respiravo più. E’ finita, pensavo, sono morto. Poi la massa umana ha avuto un sussulto, si è scossa ed io ho rivisto uno scampolo di cielo… ho allungato istintivamente una mano e qualcuno, non so chi, l’ha afferrata e mi ha tirato fuori”. Tornare alla vita mentre intorno c’è chi la stava lasciando per sempre, come un giovane medico, Roberto Lorentini, che dopo essere riuscito a scampare all’inferno vi ritorna dentro per cercare di rianimare un bambino steso per terra. Stavolta l’inferno non perdona e lo inghiotte, lasciando soli una giovane moglie e due figli ancora piccoli. Troppo piccoli. L’eroismo del dottor Lorentini ci ricorda che la vita, come il calcio, è frequentato anche da persone perbene, inclini a cercare di non perdere mai la propria umanità. Ormai l’atmosfera all’interno dell’Heysel ricorda quella di una “Intifada” palestinese, si ha contezza di una tragedia pronta ad aumentarsi, vogliosa di chiedere altri tributi di sangue. Si vede chiaramente dalle immagini tv, che imperterrite continuano ad arrivare in ogni casa italiana(non in Germania: la tv tedesca, in segno di rispetto per le morti, ha deciso di interrompere il collegamento con Bruxelles), la furia dei tifosi bianconeri della curva della frangia più dura, pronta ad andare verso la curva dei supporter dei “Reds” per cercare vendetta. La polizia è scandalosamente poca, inutile nel poter cercare di trattenere chicchessia, e i tifosi juventini sono già in campo, pronti per attraversarlo.
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Si è ai confini di una apocalisse dalle conseguenze inimmaginabili, quando Antonio Cabrini e Marco Tardelli si fiondano verso la loro curva invitando alla calma. Quel gesto coraggioso non solo blocca l’esondazione della curva in campo, ma fa tornare indietro anche quelle persone già giunte sul prato dello stadio: tutti si chiude intorno ai due giocatori in un abbraccio disperato. E’ il momento in cui il buco nero dove l’umanità sta precipitando, viene tappato “State calmi, non rispondete alle provocazioni, giochiamo per voi”, dice dall’altoparlante dello stadio la voce disperata di Gaetano Scirea. I giocatori non conoscono ancora tutti i contorni della tragedia, ma sanno che ci sono state delle morti. Giocano perché gli viene ordinato di giocare per motivi di ordine pubblico. La partita inizia, e qui comincia forse la parte più miserabile di questa storia. “L’idea che la partita Juventus Liverpool si potesse giocare- scriverà Candidò Cannavò nella sua autobiografia da celebre giornalista sportivo –suonava come una colossale bestemmia. E invece si giocò, ignorando i 39 morti. Per salvare l’incasso, i diritti televisivi, per incoscienza, per ragioni di ordine pubblico… non so. Quel pallone era uno scandalo volante, quel fervore agonistico un rito macabro, ogni gesto di stizza o di gioia un repertorio da manicomio criminale”. Le parole del giornalista, per quanto dure, non rendono l’idea di quanto sia andato in scena quella sera disgraziata. C’è l’alienazione dell’uomo contemporaneo del “Teatro dell’Assurdo” di Eugene Ionesco e di Samuel Beckett a scorrere sul campo e sulle gradinate dello stadio. Non c’è più differenza tra verosimiglianza e realtà, poiché tutto si è imposto come grottescamente reale. I gesti atletici e le reazioni dei giocatori, le bandiere sventolanti e le urla dei tifosi, la gioia dei giocatori Juventini per il rigore della vittoria, assegnato per un fallo su Boniek avvenuto chiaramente fuori aerea, il pugno alzato in cielo da “Le Roi” proprio in direzione della “Curva Z”, dopo aver messo a segno il rigore. Platini non può vedere le scarpe messe in fila accanto ad un lato della curva. Ricordano quelle di ogni olocausto, di vita vissuta che non c’è più, sradicata da un lasso di tempo malvagio fino all’inverosimile. L’allora direttore della Gazzetta dello Sport verga un editoriale in cui si scaglia contro tutti, perché tutti sono colpevoli del delitto: le autorità belghe, l’Uefa, le tv, i club calcistici. Tutto, secondo Cannavò, è stato ridotto ad un mercato nel tempio, dove persino il dolore è merce.
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La “Sentenza Bosman”, a cui in modo molto semplicistico tutti danno la colpa della versione affaristica del calcio contemporaneo, verrà solo dopo dieci anni. E mentre dopo le scarpe, anche i cadaveri vengono allineati di fronte ad un muro dello stadio, i giocatori della Juventus fanno un giro del campo festeggiando con la coppa tra le mani. E’ una delle scene più indecenti di tutta la storia del calcio, una cosa di cui tutti i protagonisti di quella serata in seguito si pentiranno amaramente. Poi c’è la versione più brutta mai messa in scena dalla società italiana nel suo complesso. C’è Mario Soldati che loda la Juve , sostenendo che in fondo la vita è una atrocità. Prosegue Italo Calvino, invitando la Juventus a non restituire la Coppa vinta, “ anche se non aveva senso giocare”. Stupisce come uno scrittore del calibro di Calvino non avverta la contraddizione gigante insita in queste sue parole. Gianni Rocca, all’epoca condirettore de “La Repubblica”, prova a far ragionare il Paese attraverso un editoriale in cui invita il club bianconero a restituire la coppa, provocando reazioni violentissime, a partire dal presidente Giampiero Boniperti. Solo nelle guerre si cerca la gloria attraverso i morti, la Juventus, senza rendersene probabilmente conto, aveva fatto varcare questo confine al calcio. I festeggiamenti per le strade di Torino dei tifosi juventini, sono la prova che la vittoria aveva superato in importanza la morte. E’ il segnale di un processo culturale situato al suo inizio, che non porta al desiderio della vittoria ad ogni costo, ma della supremazia ad ogni costo. Il conto che stiamo pagando oggi per tale atteggiamento è salatissimo, e ancora non se ne vede una fine. Rivedo le foto dei corpi schiacciati senza vita, deformati in viso per una terribile asfissia. Rivedo il corpo della diciassettenne Giusy Conti steso per terra, quasi una imitazione mal riuscita di una bambola. E’ la “Pietà” di Michelangelo che ritorna a rappresentare grandiosamente l’assurdo, ma in questo caso mi rende particolarmente pessimista come Luigi Pirandello in “Il Fu Mattia Pascal”: “Ah, che vuol dire morire! Nessuno, nessuno si ricordava più di me, come se non fossi mai esistito”. Erano nostri connazionali, erano persone, erano gli affetti di qualcuno, erano un progetto di vita.
Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.
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