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Si è ai confini di una apocalisse dalle conseguenze inimmaginabili, quando Antonio Cabrini e Marco Tardelli si fiondano verso la loro curva invitando alla calma. Quel gesto coraggioso non solo blocca l’esondazione della curva in campo, ma fa tornare indietro anche quelle persone già giunte sul prato dello stadio: tutti si chiude intorno ai due giocatori in un abbraccio disperato. E’ il momento in cui il buco nero dove l’umanità sta precipitando, viene tappato “State calmi, non rispondete alle provocazioni, giochiamo per voi”, dice dall’altoparlante dello stadio la voce disperata di Gaetano Scirea. I giocatori non conoscono ancora tutti i contorni della tragedia, ma sanno che ci sono state delle morti. Giocano perché gli viene ordinato di giocare per motivi di ordine pubblico. La partita inizia, e qui comincia forse la parte più miserabile di questa storia. “L’idea che la partita Juventus Liverpool si potesse giocare- scriverà Candidò Cannavò nella sua autobiografia da celebre giornalista sportivo –suonava come una colossale bestemmia. E invece si giocò, ignorando i 39 morti. Per salvare l’incasso, i diritti televisivi, per incoscienza, per ragioni di ordine pubblico… non so. Quel pallone era uno scandalo volante, quel fervore agonistico un rito macabro, ogni gesto di stizza o di gioia un repertorio da manicomio criminale”. Le parole del giornalista, per quanto dure, non rendono l’idea di quanto sia andato in scena quella sera disgraziata. C’è l’alienazione dell’uomo contemporaneo del “Teatro dell’Assurdo” di Eugene Ionesco e di Samuel Beckett a scorrere sul campo e sulle gradinate dello stadio. Non c’è più differenza tra verosimiglianza e realtà, poiché tutto si è imposto come grottescamente reale. I gesti atletici e le reazioni dei giocatori, le bandiere sventolanti e le urla dei tifosi, la gioia dei giocatori Juventini per il rigore della vittoria, assegnato per un fallo su Boniek avvenuto chiaramente fuori aerea, il pugno alzato in cielo da “Le Roi” proprio in direzione della “Curva Z”, dopo aver messo a segno il rigore. Platini non può vedere le scarpe messe in fila accanto ad un lato della curva. Ricordano quelle di ogni olocausto, di vita vissuta che non c’è più, sradicata da un lasso di tempo malvagio fino all’inverosimile. L’allora direttore della Gazzetta dello Sport verga un editoriale in cui si scaglia contro tutti, perché tutti sono colpevoli del delitto: le autorità belghe, l’Uefa, le tv, i club calcistici. Tutto, secondo Cannavò, è stato ridotto ad un mercato nel tempio, dove persino il dolore è merce.
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La “Sentenza Bosman”, a cui in modo molto semplicistico tutti danno la colpa della versione affaristica del calcio contemporaneo, verrà solo dopo dieci anni. E mentre dopo le scarpe, anche i cadaveri vengono allineati di fronte ad un muro dello stadio, i giocatori della Juventus fanno un giro del campo festeggiando con la coppa tra le mani. E’ una delle scene più indecenti di tutta la storia del calcio, una cosa di cui tutti i protagonisti di quella serata in seguito si pentiranno amaramente. Poi c’è la versione più brutta mai messa in scena dalla società italiana nel suo complesso. C’è Mario Soldati che loda la Juve , sostenendo che in fondo la vita è una atrocità. Prosegue Italo Calvino, invitando la Juventus a non restituire la Coppa vinta, “ anche se non aveva senso giocare”. Stupisce come uno scrittore del calibro di Calvino non avverta la contraddizione gigante insita in queste sue parole. Gianni Rocca, all’epoca condirettore de “La Repubblica”, prova a far ragionare il Paese attraverso un editoriale in cui invita il club bianconero a restituire la coppa, provocando reazioni violentissime, a partire dal presidente Giampiero Boniperti. Solo nelle guerre si cerca la gloria attraverso i morti, la Juventus, senza rendersene probabilmente conto, aveva fatto varcare questo confine al calcio. I festeggiamenti per le strade di Torino dei tifosi juventini, sono la prova che la vittoria aveva superato in importanza la morte. E’ il segnale di un processo culturale situato al suo inizio, che non porta al desiderio della vittoria ad ogni costo, ma della supremazia ad ogni costo. Il conto che stiamo pagando oggi per tale atteggiamento è salatissimo, e ancora non se ne vede una fine. Rivedo le foto dei corpi schiacciati senza vita, deformati in viso per una terribile asfissia. Rivedo il corpo della diciassettenne Giusy Conti steso per terra, quasi una imitazione mal riuscita di una bambola. E’ la “Pietà” di Michelangelo che ritorna a rappresentare grandiosamente l’assurdo, ma in questo caso mi rende particolarmente pessimista come Luigi Pirandello in “Il Fu Mattia Pascal”: “Ah, che vuol dire morire! Nessuno, nessuno si ricordava più di me, come se non fossi mai esistito”. Erano nostri connazionali, erano persone, erano gli affetti di qualcuno, erano un progetto di vita.
Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.
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