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Le scelte di Diego Demme

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Loquor / Torna l'appuntamento con la rubrica di Anthony Weatherill: "Continuano ad esserci persone, per fortuna della buona sorte dell’umanità, che continuano a porsi le grandi domande, non guardando alla luna ma posando l’attenzione sul loro...
Anthony Weatherill

“Non ci è permesso scegliere il nostro destino, ma ciò che ci mettiamo dentro è nostro”.

Dag Hammarskjold

Ci sono domande gigantesche che si approcciano, senza per forza entrarvi perché in fondo siamo liberi, nella nostra esistenza. Domande ad esortare continuamente di cercare un senso nel quotidiano,perché ogni momento potrebbe essere quello definitivo per fare entrare in noi le motivazioni essenziali per cui percorriamo le strade del mondo.

Giacomo Biffi, per anni Arcivescovo di Bologna, in un incontro pubblico ebbe a sottolineare come la scienza e la tecnologia abbiano reso l’uomo “capace diandare sulla luna a prendere dei sassi, senza però ancora rivelargli cosa è venuto afare sulla terra”, stupendosi non poco di tale singolare rimozione dall’orizzonte umano. Le domande gigantesche non hanno sempre bisogno di risposte commisurate, sovente, invece, capita di trovare qualche risposta in alcuni avvenimenti in cui non ci si aspetterebbe mai di trovarle.

Diego Demme deve aver stupito non poco la dirigenzadel Lipsia, squadra attualmente in testa alla classifica della “Bundesliga” e in attesa diun affascinante ottavo di finale di Champions contro il Tottenham, quando qualche settimana fa ha espresso il suo desiderio di lasciare il club della città più grande della Sassonia per abbracciare la causa di un Napoli avviluppato in una crisi di gioco e risultati apparentemente senza fine.

E’ nel cercare la terra e non la luna, che si dipanala storia di questo centrocampista tedesco, a cui fu imposto il nome “Diego” in onore di Maradona, il Diego dei “Dieghi” della storia del calcio. Il padre di Demme è un immigrato calabrese, giunto in Germania a lavorare con nel cuore la sua terra e la passione calcistica per il Napoli. Sono dettagli essenziali, quando ci si ritrova improvvisamente catapultati in terra straniera senza più qualcosa di riconoscibile nel quotidiano con cui orientarsi.

La squadra di calcio diventa sinonimo di gioia e orgoglio vivendo in un Paese, la Germania, non sempre disponibile a vedere di buon occhio questa manodopera italiana di certo indispensabile allo sviluppo dell’economia tedesca, ma con usi e costumi destabilizzanti per i modi di fare teutonici. E’ davvero difficile immaginare, se non essendo stati presenti da tempo in Germania, cosa ha rappresentato la vittoria dei mondiali del 2006 in terra tedesca della nazionale italiana.

Un sogno mondiale da vincere assolutamente che per i “bianchi” tedeschi era andato ad infrangersi sul muro italiano al Westfalenstadion di Dortmund la sera del 4 luglio del 2006. La nazionale tedesca non aveva mai perso a Dortmund, ma quello sera Andrea Pirlo, dopo aver atteso qualche secondo e aver rinunciato a tirare(e l’aveva il tiro Pirlo, eccome se ce l’aveva), aveva individuato l’unico spazio possibile tra sé e Fabio Grosso, regalando alla comunità italiana in Germania una di quelle gioie da non potersi dimenticare mai. Violando con un colpo di fioretto la presunta inviolabilità dello stadio di Dortmund, gli italiani ancora una volta avevano dimostrato al mondo di che pasta siano fatti. Leonardo, Michelangelo, ecc...(l’elenco sarebbe lungo da fare impressione), non sono di certo nati nella penisola delle penisole per puro caso.

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Gennaro Gattuso fu uno dei componenti più autorevoli di quella storica impresa del calcio italico, se non per classe pura(non era un giocatore di classe sopraffina) sicuramente per voglia e carattere. Quel carattere noto alla comunità italiana tedesca, abituata a svegliarsi ogni mattina per andare ad occupare le caselle dei lavori più umile faticosi in terra di Germania.

E di Gennaro Gattuso, detto “Ringhio”, l'adolescente Diego Demme era stato accanito tifoso, forse perché la fatica con cui occupava la linea mediana del campo di gioco era davvero troppo simile alla fatica quotidiana di suo padre. Una fatica protesa a regalare sogni non per il presente, ma per il futuro. E il futuro, nel caso di papà Demme, era proprio Diego, impossibile da immaginare un giorno con la casacca azzurra del Napoli addosso. Il Napoli di Maradona, per un calabrese come papà Demme, non deve essere stata semplicemente una squadra di calcio. “Una squadra del sud Italia che un giorno si mise in testa di sfidare la Juventus degli Agnelli. Hai idea di cosa significhi mettersi contro il potere degli Agnelli in Italia?”, dice un trasognante (e pieno di orgoglio) Maradona a Emir Kuturica, nello splendido documentario a lui dedicato dal celebre e molto talentuoso regista bosniaco.

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Per un uomo del sud è impossibile resistere al richiamo del Napoli, perché esso rappresenta il simbolo di una città che fu capitale di un mondo poi risucchiato dagli sconvolgimenti ogni tanto messi in scena dalla storia. “Adda’ passà ‘a nuttata”, dice un malinconico, ma speranzoso, Edoardo De Filippo nella sua “Napoli Millionaria”, proponendo con quella battuta, forse senza volerlo, il manifesto cultural/esistenziale di un Mezzogiorno sempre in attesa di un domani migliore. E quando Maradona sbuca per la prima volta dalla scale provenienti dal ventre dello“Stadio San Paolo”, il “pianoforte e voce me pare e sentì” della bellissima canzone di Teresa De Sio deve aver fatto irruzione nell’inverno delle inquietudini dei tifosi napoletani, trasformando tutto in una primavera infinita.

E Gattuso si fa accompagnare da bambino ad adolescente dalle gesta di uno dei più grandi della storia del calcio, improvvisamente ertosi a uomo dei sogni di una città spesso perduta nella notte della sua malinconia. Poteva rifiutarsi Gennaro Gattuso, uomo del sud, di sedere sulla panchina del Napoli? Non poteva, pur essendo consapevole di andarsi ad infilare in un ginepraio da cui difficilmente uscirà indenne la sua reputazione professionale.

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Continuano ad esserci persone, per fortuna della buona sorte dell’umanità, che continuano a porsi le grandi domande, non guardando alla luna ma posando l’attenzione sul loro destino terreno. Non deve sorprendere, quindi, come le strade di Gennaro Gattuso e Diego Demme si siano incrociate in un Napoli in profonda crisi di risultati, perché quando si ama qualcosa non importano i richiami di grandi palcoscenici e possibili storici risultati professionali. Ciò che importa e ricondurre la tua vita “sulla giusta rotta e sulla vita semplice. Fatta di piccoli gesti quali un abbraccio, il vegliare un’ammalata, l’offrire una tazzina di caffè. E l’aspettare insieme che la luce torni a splendere”. Diego Demme, giungendo a Napoli, lascia unLipsia lucente stella cometa del firmamento della “Bundes”, per inseguire un sogno dell’anima e del cuore. Si pone, il giocatore italo tedesco, come contraltare al nichilismo occidentale contemporaneo, ormai sempre più imperante anche nel mondo del calcio, urlando al mondo come ancora si possa scegliere cosa si possa essere, e non cosa si possa avere. E non è finita finché non è finita. Nasciamo liberi, e dobbiamo e possiamo morire liberi.

E’ una buona notizia questa di Diego Demme, perché porta in primo piano il motivo per cui siamo qui e perché ci riporta fin dentro al carattere primario del calcio. E inoltre torna a sancire una cosa chiara: non tutti gli sportivi strapagati sono disponibili, per fama e soldi, a dimenticarsi di essere persone con il mondo e nel mondo. Forse il Lipsia otterrà una storica vittoria contro il Tottenham negli ottavi di Champions e forse fermerà il dominio del Bayern in Bundesliga, ma si può essere certi come Diego Demme non avrà nessun rimpianto. Guidato dal suo idolo dell’infanzia lotterà per portare il Napoli fuori dalla sua nottata molto oscura, perché è il suo dovere e il suo destino di figlio di un emigrato, a cui quel colore azzurro probabilmente ha dato gioia e ha lenito molte fatiche quotidiane.

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“Noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, e nello spazio e nel tempo d’un sogno è raccolta la nostra breve vita”, è scritto nella prima scena dell’atto IV della “Tempesta” di William Shakespeare, e mai parole scritte furono così vere e nello stesso tempo un monito. Non si può negare, proprio non si può, come i nostri sogni siano esistiti, ovvero come siano stati qualcosa, non nulla. Pertanto sono stati rappresentazione del vero. Coraggio, dunque, finiamola di guardare la luna e concentriamoci sulla terra. Perché questa ancora ha molto da parlare e molto da dare. E noi, verso di essa, abbiamo ancora molto da agire. Chapeau, Diego Demme, e che tutte le belle storie del mondo siano con te. E anche un po’ con noi.

ha collaborato Carmelo Pennisi

Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.

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