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Ma la cosa a fare più riflettere, dovrebbe essere una delle “scatole” più interessanti coinvolta direttamente nella gestione di “Oaktree”, ovvero la “Brookfield Asset Management” di Toronto specializzata in aziende con libri contabili pieni di debiti e sull’orlo del fallimento. Famosa è rimasta la sua acquisizione, nel 2018 della “Westinghouse Electric Company”, ormai praticamente fallita, per 4,6 miliardi di dollari. La “Oaktree” che presta soldi all’Inter, è la dimostrazione plastica di come il calcio in Italia non sia un’impresa, non richieda cervelli capaci di gestire la paura per dare spazio alla follia di una visione imprenditoriale, ma sia solo occasione di speculazioni finanziarie e di ricavi, sovente opachi, fatti attraverso il “trading” dei calciatori. In un mondo così strutturato gente come Del Vecchio non metterà mai piede, e fanno un po’ sorridere le notizie circolanti ormai da qualche tempo di un interesse dell’ Uomo di Agordo sul Torino Calcio. Per carità, non bisogna mai mettere un limite alle possibilità offerte dalla vita e nemmeno alle speranze, ma ci sono limiti ad apparire davvero invalicabili. Quando Silvio Berlusconi prese il Milan, lo fece per evidenti ragioni strategiche rivolte al futuro delle sue imprese mediatiche, legate strettamente ad un discorso d’immagine, unico utile realmente prodotto dal calcio nazionale. Probabilmente, inoltre, nell’orizzonte del Cavaliere c’erano già delle ambizioni politiche. Ma se parliamo d’impresa, se parliamo di utili netti in denaro, il Milan per Berlusconi è stato solo un rimetterci. Franco Sensi nella causa della Roma ha dilapidato uno dei patrimoni più ingenti d’Italia. Qualcuno sussurra come la famiglia Moratti abbia sacrificato sull’altare dell’Inter quasi un miliardo di euro. E si potrebbe andare avanti all’infinito con esempi eloquenti come il mondo del calcio sia la cosa più possibile lontana dalla logica di fare impresa. A fronte di investimenti ingenti gli utili netti dei club italiani, quando ci sono, sfiorano il limite del ridicolo, ed è uno dei motivi per cui è quasi impossibile, in questo contesto, pensare in termini di investimenti infrastrutturali (gli stadi, per esempio). Si campa con gli introiti della televisione, che fanno “galleggiare” le società in perenne stato di prossimo annegamento, mantenute in vita anche per poter speculare sui loro debiti (come stanno facendo il Fondo Elliott e altri soggetti in vari modi).
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Il calcio italiano è un mondo davvero incomprensibile per una mente come quella di Leonardo Del Vecchio, abituata a fare impresa, tesa a costruire cose, non a far soldi speculando su debiti o prodotti finanziari similari. Il patron di “Luxottica” è l’ultimo rimasto dei grandi imprenditori che hanno reso grande l’Italia nei primi vent’anni del dopoguerra, dove contavano la produzione delle merci e la qualità delle mani degli operai a produrle. Era l’orgoglio italiano di saper ciclicamente produrre un “Rinascimento”, dove era importante fare utili, ma dove a contare c’era anche l’idea di futuro e i sogni di chi contribuiva insieme a te a costruire questo futuro. Era il senso di una comunità capace di rendere immortale ogni tua idea, diventata una lampada rivolta verso tutte le albe a venire. Se si vuole convincere uomini come Del Vecchio ad abbracciare il calcio, bisogna che questo sport torni ad essere non una macchina per far fare soldi a palate a giocatori, procuratori, fondi di investimenti, presidenti furbi, lasciando poi attorno a loro esclusivamente terra bruciata e invasa da ipoteche debitorie. Bisogna che questo sport torni ad essere un segno di memoria, un’etica del presente e una luce verso il futuro. Non saranno i fondi sovrani arabi a salvare il calcio, perché essi lo stanno facendo per ragioni geopolitiche, e non lo faranno nemmeno i possibili più introiti derivanti da una futura SuperLeague; a salvare il nostro amato sport saranno quegli uomini capaci di mettere accanto alla voce degli utili, anche quella della responsabilità d’impresa, segno distintivo di come ci sia una vita delle persone a sostenere il significato e il valore di tutta la nostra capacità di commerciare e produrre merci. Fare bene impresa vuol dire ottemperare ad un dovere verso la comunità, vuol dire avere materialmente la possibilità di farlo. Con grande dispiacere bisogna ammettere come in questo momento nel calcio italiano non sia minimamente possibile coniugare etica ed impresa. Il mondo secondo Del Vecchio lo si può vedere in una foto del suo stabilimento di Agordo. Sembra una cartolina a ritrarre un castello incantato, talmente in armonia con la valle da potere pensare come esso sia sempre stato lì dall’inizio dei tempi. Forse il Toro avrebbe potuto essere un buon investimento per Del Vecchio, ma manca la valle, manca l’idea d’immortalità, manca la possibilità di un castello incantato. La “Fata Turchina” ha deciso di impegnarsi da altre parti, e forse la colpa è un po’ anche la nostra. Di tutti noi.
Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.
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