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Il Ministro dello Sport Vincenzo Spadafora, in un’intervista a La7, si è augurato un campionato di Serie A dal regolare svolgimento, perché altrimenti il rischio del fallimento di molti club potrebbe essere più di una mera discettazione retorica da salotto. Questo spettro di un calcio ridotto a portare i suoi libri contabili in tribunale, fino a qualche anno fa sarebbe stata una previsione dal tratto impensabile. Erano i tempi in cui le squadre di calcio non dipendevano dalla legge della domanda e dell’offerta, ma solo, come si è detto, dalla passione. Non era necessario, per dar vita ad una squadra di calcio, di fare il conteggio delle varie forme di ricavi prefigurate da un mercato. Non c’erano presidenti che nei contratti dei calciatori miravano ad appropriarsi dei “diritti d’immagine”, in quanto se un calciatore voleva presenziare all’inaugurazione di un ristorante doveva e poteva avere il diritto di farlo, persino gratuitamente se solo lo avesse ritenuto opportuno. Perché si rendeva perfettamente conto, il calciatore, come la sua popolarità dipendesse in parte anche dal concetto del calcio come bene comune. Restituire qualcosa in modo disinteressato, quindi, faceva parte dei suoi doveri verso il sentimento popolare e verso la decenza. Ma il “capitale”, quando prende il sopravvento “ad alzo zero”, prima seduce con l’apparente miraggio di guadagni superiori, poi annienta qualsiasi tipo di diritto o libertà, a meno che queste due cose non siano legati ad un profitto. Un tempo non avrebbe mai potuto esserci un metodo “Mino Raiola”, consistente nel far balzare i calciatori continuamente da un club all’altro, in un valzer dove il contagiri dei denari a pioggia va a soddisfare ogni parte in commedia (aumenti degli stipendi dei calciatori, commissioni degli agenti, bilanci dei club continuamente artefatti per interessi opachi, ecc…).
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Il “Fairplay finanziario” nato ufficialmente per contenere i costi dei club, in realtà ha aumentato la girandola “raiolana” dei calciatori, creata appositamente anche per mettere toppe sui bilanci delle società. Il denaro non solo non dorme mai, ma pare essere diventato l’unico motivo per cui i magazzinieri tolgono la mattina i palloni dai classici contenitori “a rete”. Ci sono stati uomini che hanno cercato di difendere il calcio dalle sirene del vil denaro fino all’ultimo, e lo hanno fatto con senso dell’onore e autentico amore per il gioco. Non posso non pensare ad Artemio Franchi e al gran rifiuto opposto ad Henry Kissinger, un tipo che definire solo potente appare un’evidente diminutio. Era una giornata piacevolmente primaverile, quella di una Stoccolma ospitante la riunione del vertice della Fifa nel 1983. Gli americani avevano finalmente compreso quale grande affare potesse essere mondiale di calcio. L’allora Comitato Organizzatore della Fifa aveva stimato in quattrocento milioni di dollari le entrate del campionato del mondo del 1986, e gli Stati Uniti erano decisissimi a soffiare al Messico l’evento. Kissinger, nella splendida cornice della veranda francese del Grand Hotel, affacciata sul Palazzo reale, provò a sedurre l’importante e influente dirigente calcistico italiano con la proposta di un 20% in più di ricavi garantiti, rispetto alla proposta dei messicani. Era una proposta, quella dell’ex Segretario di Stato di Richard Nixon e Gerald Ford, portata avanti con l’appoggio di importanti player della comunicazione multimediale e colossi dai brand affascinanti dal profumo globale. C’era da rimanerne soggiogati all’istante, perché tanti sarebbero stati i vantaggi personali nell’accogliere una simile proposta. E tanti sarebbero stati i pericoli nel rifiutarla.
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Ma Artemio Franchi non è stato il più grande dirigente sportivo italiano per caso, e quella che andò in scena al Grand Hotel di Stoccolma meriterebbe un film, perché forse non è così sbagliato ricordare alle giovani generazioni italiane quanto di buono c’è nel passato del loro Paese. Artemio Franchi ascoltò il potente Kissinger con grande imbarazzo, poi con grande fermezza da buon contradaiolo senese, gelò un uomo probabilmente convinto come nella vita ogni cosa possa e debba avere un prezzo: “Non si può trasformare un campionato di calcio in un business pubblicitario fine a se stesso”. I Mondiali dell’86 furono assegnati al Messico, e Franchi qualche giorno dopo confidò ad un amico: “Non darò mai un mio assenso ad un mondiale delle multinazionali. Sarebbe stravolgere completamente il gioco, trasformarlo in qualcosa che non sarebbe più calcio, che non può essere snaturato nemmeno per un miliardo di dollari”. Qualche mese dopo Artemio Franchi morì in un misterioso incidente stradale, e l’Italia perse probabilmente il più grande dirigente sportivo della sua storia. È difficile immaginare cosa avrebbe pensato e come avrebbe agito di fronte al calcio di oggi Artemio Franchi, uno per cui il prestigio e l’onore della sua contrada erano uno dei motivi principali dello stare al mondo. Di certo non sarebbe rimasto a guardare indifferente. Oggi di lui è rimasto solo il nome sopra uno stadio e il denaro, che ha in pugno le multinazionali, si è preso in mano il suo amato gioco del calcio. Non so davvero dire quando tutto questo sia avvenuto, e non so quanto ancora mi rimane da respirare in questo mondo. Ma prima di salutarlo definitivamente mi piacerebbe, sì mi piacerebbe proprio, vedere l’opinione pubblica indignarsi per quanto le stanno togliendo. Lo meritano persone come Artemio Franchi, lo merita l’Italia, ma soprattutto lo merita il compito per cui siamo nati: progettare il futuro.
(ha collaborato Carmelo Pennisi)
Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.
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