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Il calcio dimenticato dall’élite europea

Il calcio dimenticato dall’élite europea - immagine 1
Loquor / Torna l’appuntamento con la rubrica di Anthony Weatherill: "Le élite europee, ed italiane, hanno deciso di disinteressarsi completamente dei valori comunitari. Di questo disinteresse, sia chiaro, saranno colpevoli davanti alla storia."
Anthony Weatherill

“La vita non dice nulla,

mostra tutto”.

Richard Bach

 

Gli archetipi della cultura occidentale non attraversano un buon momento, e sembra tutto un rincorrere, da parte del mainstream europeo, verso la liberazione da ogni tipo di tradizione, da ogni tipo di passato. Il mondo della comunicazione, specie quella audiovisiva, si premura ogni giorno di demolire qualsiasi traccia di certezza inoculata in generazioni di europei nel corso dei secoli. Tempo fa una serie televisiva di Sky è giunta persino a presentare la nota vicenda della “Spada nella Roccia” come un trucco di “Mago Merlino” per far agguantare ad “Artù” il trono, nell’evidente intento di contribuire a destrutturare qualsiasi desiderio di una nuova “Camelot” da parte di chi abita in questa parte di mondo. È un appunto di un nuovo manifesto culturale proposto/imposto dalla elite del Vecchio Continente per far dimenticare la vetusta idea di “Tavola Rotonda”, metafora di una cultura basata sulla comunicazione e sulla collaborazione, venuta su come monito per favorire, tra pari, lo scambio di opinioni e di idee.

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A pensarci bene, il calcio nasce per favorire lo scambio d’opinioni tra pari, perché lo stadio, luogo dove da più di un secolo si celebra il rito degli undici contro altri undici a raccontare la propria abilità davanti ad un pallone che rotola, è stato per molto tempo il luogo più socialmente trasversale del mondo. All’ “Estadio Riazor” di La Coruna si può quindi trovare Amancio Ortega, proprietario del marchio “Zara” e uno degli uomini più ricchi del mondo, accanto ad uno dei tanti disoccupati della città (la disoccupazione in Galizia supera il 14%) o ad un pescatore di alghe. Tutti con la stessa fibrillazione da evento agonistico, tutti con la stessa passione. È la “Tavola Rotonda” a sensibilità paritaria di “Re Artù”. Ma questa tavola rotonda calcistica non doveva essere ben vista da chi ha deciso come il mondo dovesse avere una rivoluzione copernicana dal carattere del cammino del gambero. Tornare indietro nel tempo, quando i desideri dei pochi soverchiavano i bisogni dei molti, è diventata la parola d’ordine di un continente nato per essere fucina di idee di abbattimento di antichi e consolidati privilegi da satrapi. Curiosamente il calcio nasce e si afferma proprio mentre il comune sentire europeo mette in discussione in modo definitivo i privilegi di nascita, valorizzando più che le classi sociali (all’origine di ogni privilegio. Il film premio oscar “Parasite” insegna), le comunità in cui le vicende degli uomini si dipanano.

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L’Ajax nasce tra le vie dell’antico ghetto ebraico di Amsterdam, e tutt’oggi reca con sé numerosi legami e simboli della cultura ebraica. Il Millwall prende vita tra i lavoratori portuali di Londra, e oggi conta tifosi d’eccezione come Gary Oldman e Daniel Day Lewis. Cosa hanno questi due grandi e facoltosi attori in comune con un qualunque elemento della “working class” incontrato tra le gradinate del “The Den”, casa del Millwall? Niente, se non il Millwall. Una squadra tenace nel resistere nella conservazione della propria identità, con l’orgoglio di non aver mai vinto niente e di non ambire a vincere niente. Non voler vincere niente forse potrebbe essere un antidoto contro chi vuole convincere un intero continente della necessità di abbandonare ogni consuetudine, al fine di avere almeno una speranza di entrare in quel futuro senza più confini e tradizioni prefigurato da chi non prevede più nemmeno l’esistenza di un tavolo, rotondo o rettangolare che sia, ma solo un posto nell’alveo digitale fautore di un incontro emozionale, e artificiale, con un omologo/a di Shanghai. Se la “Spada nella Roccia” fu semplicemente una gabola di “Merlino”, ovvio come tutta la metastoria di una società alla conquista di una “Camelot” per tutti fosse la gabola delle gabole. Calcio a scopo comunitario incluso. Lo hanno ben compreso i ricchi del Vecchio Continente, che da tempo hanno smesso di credere nell’utilità sociale dello sport più seguito al mondo e hanno deciso di mantenersi alla larga da esso. Il calcio diventato un business del mondo dello spettacolo, può interessare solo o a chi la società-spettacolo l’ha inventata (gli americani), o a super ricchi diventati molto facoltosi non per il lavoro imprenditoriale, ma per le opportunità (sceicchi arabi e oligarchi russi), o a chi utilizza lo sport per ragioni di geopolitica (i capitalisti di stato della Repubblica Popolare Cinese). Leonardo Del Vecchio, Giovanni Ferrero, Stefan Persson, Liliane Bettencourt (tanto per citare alcuni nomi del gotha capitalistico europeo), si tengono ben lontani dall’intraprendere avventure imprenditoriali nel calcio. È il trionfo del distacco dalle proprie responsabilità sociali, è amnesia rispetto ad un contesto che li ha resi protagonisti, ma non più meritevole delle loro attenzioni. È la resa di fronte ad una modernità contemporanea voluta da qualche “grande vecchio” protagonista dai terminali finanziari globali controllati con il pugno di ferro.

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Va bene lo spettacolo, quindi, non va bene la storia. Lo spettacolo si consuma e apre la porta ad un altro consumo, in un ciclo anomico senza fine. La storia si vive da protagonisti e rende uniti dalla memoria. Donando forza, attraverso un’iconica tavola rotonda. Fa sorridere amaramente un “Fondo Elliott” che, per quanto faccia, ancora non riesca a trovare un compratore per una società gloriosa e importante come il Milan. Fa sorridere amaramente e, riflettendoci su, rischia di renderci un po’ disperati. Perché se una bella storia come il Milan non trova ammiratori disposti ad investirci tempo e denaro, allora istintivamente intuiamo come qualcosa simile ad una inspiegabile malasorte sembrerebbe non volerci abbandonare. Ma cosa sta succedendo? Possibile che il calcio europeo, e specie quello italiano, quando si affida a imprenditori continentali, questi imprenditori abbiano sempre i connotati di imprenditori di risulta? Possibile come Giovanni Ferrero, padrone di un’azienda che fattura quasi undici miliardi di fatturato, non senta il bisogno di restituire un po’ della sua fortuna aiutando una reliquia così importante (il Torino) per il luogo dove risiedono le sue radici, decidendo finalmente di comprare la squadra granata? È possibile, purtroppo tutto ciò è possibile. E sta avvenendo sotto i nostri occhi. Le élite europee, ed italiane, hanno deciso di disinteressarsi completamente dei valori comunitari. Di questo disinteresse, sia chiaro, saranno colpevoli davanti alla storia. “Lascia un conto in sospeso con la vita, una missione da compiere. Predisponiti all’inatteso, aspetta e prepara sorprese, non escludere rinascite. Abita altri mondi oltre quello di ogni giorno. Dispera pure, ma rendi fruttuosa la disperazione”, scrive Marcello Veneziani nella sua ultima ed interessante pubblicazione (“Dispera bene” - Marsilio). Ed è, questa di Veneziani, una preghiera a tutti noi di trovare una reazione, una modalità di tornare ad esistere come persone, più che come funzioni di un meccanismo. Persone che si interessano ad altre persone, perché è riuscire a riappropriarsi di un percorso comune la vera sfida di questo tempo.

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Un percorso comune di valori condivisi, teso a non voler lasciare indietro nessuno, perché compartecipi del destino di ognuno, al quale non possiamo assistere come semplici spettatori. Il calcio è una di quelle manifestazioni umane che ricorda come sia importante partecipare insieme, ognuno con il suo livello di comprensione delle cose, all’avventura esistenziale. A volte sono davvero impressionato dai forum dei tifosi, dove accorrono da diverse parti dell’Italia e del mondo. Ci sono tifosi del Toro dalla Francia, dall’Inghilterra, dall’America, da dovunque. I tifosi si parlano, polemizzano, si mandano a quel paese, si abbracciano, si incoraggiano: sono uniti da un destino comune, pur essendo lontani tra loro. Riescono ad essere comunità, perché si riconoscono in una storia. Una storia conosciuta. Qualcuno da tempo ci sta sussurrando di lasciare andare via la storia, perché ormai non serve più in quest’epoca moltiplicatrice di futuri possibili e tutti apparentemente inevitabili. Se daremo retta a questo sussurro, se ci arrenderemo alla cancellazione di tutto ciò che è stato, forse è giusto che anche il calcio finisca la sua parabola dentro uno spot pubblicitario. È il momento della responsabilità, è il momento delle scelte, è il momento di provare a tirare fuori la spada dalla roccia. Forse siamo ancora in tempo. Chissà…

 

(ha collaborato Carmelo Pennisi)

Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.

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