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Il Toro, la mistica, Gianluca Petrachi

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Probabilmente Petrachi voleva riferirsi al mito, ovvero quella forma di protesta romantica contro la banalità della vita quotidiana
Carmelo Pennisi
Carmelo Pennisi Columnist 

“Chi è privo di un mito è un uomo che non ha radici” Carl Gustav Jung

Negli ultimi due giorni il rumore dell’ultimo articolo pubblicato da Marcello Veneziani su “La Verità”, ha invaso il dibattito pubblico quasi più dell’approvazione della “Legge Finanziaria”, forse perché l’intellettuale pugliese ha fatto ruotare tutta la sua riflessione attraverso uno sguardo triste della realtà, ma consapevole sulla verità. Nella poetica letteraria definiremmo questa predisposizione d’animo il disincanto di quando troppe volte si è rimasti delusi, specie dopo aver creduto ad un mondo fatto di dettagli dell’anima trascurabili all’occhio quotidiano e disattento, ma vigili ad una predisposizione romantica dell’esistenza.

Le cose cambiano con lo scorrere del tempo, ci sono ritorni inaspettati atti a far presagire novità, come nel caso del rientro in Granata di Gianluca Petrachi. Si preme sui sentimenti fondamento di suggestioni, si cerca la spinta per un giorno dire “ehi, guardate che sono passato da qui, e vi ho reso felici”. Si fa traghettare il tifo per una squadra nella mistica, e uno si chiede da quando è finito il tempo in cui ancora si comprendevano il senso della parole. Probabilmente Petrachi voleva riferirsi al mito, ovvero quella forma di protesta romantica contro la banalità della vita quotidiana. Laddove per mito non deve intendersi l’affermazione di una bugia, poiché esso precede con la ragione qualcosa afferrabile in seguito solo con il cuore. Può anche darsi che il direttore sportivo del Toro, riferendosi alla mistica della maglia, volesse fare una analogia esistenziale, tracciando un corridoio tra noi stessi e la verità. La seduzione esistenziale è sempre stata una chiave con i tifosi del Toro, solo che negli ultimi decenni le cose si sono ingarbugliate a causa di un mondo staccatosi dal suo ultimo secolo e mezzo di storia, per andare da una qualche altra parte non meglio definita ma con il chiaro intento di sdoganarsi dal sacro. Avviene in questa apostasia dalle cose del cielo, e quindi dal mistero, il cambiamento del calcio in altro da sé, ovvero dalla sua ragione costitutiva che è sociale e di memoria.


“Nella musica di Mozart si può vedere la presenza intangibile di Dio”, ha detto il direttore d’orchestra Riccardo Muti ritirando davanti a Leone XIV il “Premio Ratzinger 2025”, e volendo traslare questo concetto nel calcio, che è, o dovrebbe essere, forma d’arte del gesto e del sentimento, si ha oggi difficoltà a trovare una traccia di mistero nel gioco più affascinante e più “biblico” del mondo, nel senso che forse i suoi racconti non sempre sono realmente accaduti ma sicuramente sono stati tramandati con i crismi della verità. Si chiede ai giocatori adesione alla “maglia”, senza probabilmente capire il senso completo di tale affermazione, e questo nella migliore nella ipotesi, perché poi in realtà sovente è la richiesta della vittoria e di un selfie a farla da padrone. Non sono stati i soldi, si badi, a provocare l’allontanamento dei calciatori dai loro doveri verso il sacro, bensì il meccanismo fatto per generare interessi, tra cui i soldi, insensibili di fronte all’esperienza del mito calcistico per lungo tempo una possibile, tra le tante possibili, pre condizione per acchiappare la vita nel giusto senso.

Vorrei dire a Petrachi, se non altro perché appunto l’ha citata, che la “maglia” una volta avrebbe avuto bisogno di un pensiero capace di generare un sentimento per poterla vivere, essa non è mai stata una dichiarazione semantica e basta, uno spot pubblicitario con cui riunire attorno ad un fuoco tecnologico, la tv o lo smartphone, masse di genti alla ricerca inerziale inconsapevole di tepore artificiale. Il Natale, nonostante sia stato a tutti costi rintronato dal transumano tecnologico contemporaneo fatto di affari e ricerca dl godimento fine a se stesso, rimane il ricordo di un avvenimento, la nascita di Gesù, che è la grande premessa di tutto ciò accaduto in seguito in Occidente. Il Natale ha partorito ogni idea manifestatesi attorno a noi, persino lo sforzo ateista di negare Dio attraverso la ragione.

Lo sport moderno si è costituito nei suoi valori, senza i quali esso non avrebbe potuto prendere il via, grazie al all’Avvento che ha stabilito nella storia umana una possibilità per tutti di potercela fare, una possibilità divenuta diritto inalienabile. Nella libertà stabilita dall’Uomo di Nazareth, che prevede scelta e non obbligo, si è potuto sviluppare l’agonismo nello sport moderno, dove il senso del limite unito alla possibilità di “provare” sono l’origine di ogni suo fascino. Il senso era quello di competere per provare ad essere migliori, ed è stupefacente quanto ciò sia estremamente correlato al divino, all’inafferrabile silenzio interiore presente subito dopo un gol fatto o un gol subito, quel silenzio allocato tra una nota e l’altra di cui parla Mozart. In quel silenzio si formano ricordo e appartenenza, dove tragicità e gioia coabitano come unico destino del scorrere umano;  lì avviene il parto del mito della “maglia” che poi un tempo veniva trasferito ai calciatori in una incredibile comunicazione priva di ausilio tecnologico. Se si segue il filo di questo ragionamento potrebbe essere facile capire come fino ad oggi abbiamo dato la colpa ai calciatori e ai loro procuratori la perdita del senso di sentire la “maglia”, ma in realtà la colpa è nostra, dei tifosi, del cambiamento di percezione su chi nel tirare un calcio ad un pallone ne ha fatto una professione.

A rifletterci bene i calciatori per giocare hanno sempre guadagnato di più della media dei lavori considerati comuni o normali. E se ci riflettiamo ancora su, Alfredo Di Stefano e Ferenc Puskas non erano spagnoli, eppure hanno dato tutto per la “Camiseta Blanca” pur essendo “stranieri”, tanto da essere diventati mito madridista imperituro. E quindi cosa ha determinato oggi l’apostasia dal sacro nel calcio, che rischia di tramutare quasi in parodia il richiamo alla maglia fatto da Petrachi? E’ cambiato, come detto, il modo di percepire il calcio e i calciatori, siamo tutti precipitati nel concetto della vittoria come unica unità di misura con cui confrontarci sui social, l’agone impersonale sostituivo del bar. L’asettica juventinità della “vittoria non come cosa importante ma come unica cosa che conta” di bonipertiana memoria, ha avvelenato il sacro e i bilanci dei club calcistici e soprattutto ha oscurato ogni “fede” originaria.

Il tifoso del Napoli oggi vittorioso ha lo stesso modo di porsi del tifoso juventino, e il torbido affare del trasferimento di Victor Osimhen dal Lille al Napoli non ha nessuna rilevanza nel vivere la passione per la sua squadra. “Parlate, parlate-mi ha detto un tifoso del Napoli-, tanto tra qualche anno tutti ricorderanno solo la presenza del Napoli nell’albo d’oro del campionato”. Ho provato ad avvertirlo: “stai facendo un tipico discorso da tifoso juventino”. E lui, un po’ stizzito: “ora non mi offendere”. In realtà si stava offendendo da solo, per il semplice fatto che stava mandando al macero un secolo di storia della “maglia” del club campano, quella “maglia” che sentiamo tradita  nel momento in cui un calciatore decide di abbandonarla per andare ad indossarne un’altra oppure se aiuta a vincere o a perdere. Poi più niente. Però Petrachi che parla di mistica della maglia del Toro e Simeone che va a Superga per recuperare qualche senso e ne rimane incantato ogni volta, sono segnali di un sottocenere con ancora del fuoco pronto a tornare a divampare.

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Osservo i bambini scartare i regali trovati sotto l’albero desiderosi di trovare qualcosa che provochi in loro stupore, e allora il disincanto di cui si lamenta Marcello Veneziani diviene incanto. Dio non è morto come non è morto il calcio, e come non è morta la vita, siamo forse assopiti tra sogno e incubo ma il risveglio ogni volta è alle porte. Il Natale non è un inno a volersi bene, ma un invito a venire al mondo per cogliere l’occasione di qualsiasi cosa coerente con il mistero con cui siamo stati pensati.

Essere del Toro vuol dire essenzialmente credere ancora nel calcio, non arrendersi a quella forza che lo vorrebbe altro da sé, e assolutamente determinati a non accettare la modernità come tabula rasa della memoria. Noi del Toro speriamo senza sosta e vogliamo ancora credere alla fiaba del calcio. In questo siamo stati e continueremo ad essere tenaci. Buon Natale a tutti, e che l’incanto sia con voi.

Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coa­utore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.

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