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Luciano Spalletti alla Juve: anatomia di un tradimento

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Torna Loquor, la rubrica su Toro News di Carmelo Pennisi: “Completamente scevri di onore, ribaltiamo intendimenti addirittura tatuati sulla pelle pur di cogliere occasioni”
Carmelo Pennisi
Carmelo Pennisi Columnist 

“Il tradimento tradisce

                                                                                il traditore”

Erica Jong

“Ogni tradimento inizia con la fiducia”, scrive Martin Lutero forse in modo più angosciato che teologico, ma che in qualche maniera rimanda al fatto della necessità di cercare una salvezza perduta chissà quando e chissà in quale modo. Siano, noi uomini contemporanei, dei creativi insoddisfatti, quasi incapaci di ottemperare ad una promessa e di mantenere un rigore. Completamenti scevri di onore, ribaltiamo intendimenti addirittura tatuati sulla pelle pur di cogliere occasioni e calcolare futuri successi. Luciano Spalletti sulla panchina della Juventus ricorda il Jack Nicholson, Colonnello comandante della base di “Guantanamo Bay”, perdere la calma e il contegno nell’aula di tribunale dove è sotto accusa: “Voi non volete la verità perché nei vostri desideri più profondi, che in società non si nominano, voi mi volete su quel muro! Io vi servo in cima a quel muro!”.

Se la starà raccontando così l’ex tecnico della Nazionale, accettare la panchina della Juventus è una necessità del calcio italiano di avere non solo interpreti all’altezza, ma anche direttori d’orchestra capaci. Lo si fa per gli altri e lo si fa per la professione, è il leit motiv che si raccontano i protagonisti del calcio “ammodernato” agli acconci del business. Esiste di certo il criterio della libertà, dell’agire rispetto ai propri criteri e ai propri bisogni, ma esiste anche il concetto di fare quel che si deve, legato a doppio filo allo scorrere del sacro che innerva il calcio sin dalla sua costituzione originaria. Teoricamente ci sarebbero cose da non potersi fare, tipo bestemmiare in chiesa, solo che poi un mal inteso esercizio della libertà fa anche bestemmiare in luoghi dove proprio non si potrebbe. Eppure il “perimetro” esiste per porre limiti, che non sono mai impedimenti o divieti alla nostra creatività e pensiero, ma semplicemente stazioni dove ci si può un attimo fermare a riflettere sul senso di opportunità.

Spalletti non è il primo e non sarà l’ultimo a fregarsene del “perimetro” e della storia, però ci sono delle dichiarazioni imbarazzanti ad inchiodarlo in questa sua contraddizione da bulimia dell’ambizione, come una risposta data a Fabio Fazio: “… certo che non sarei andato (dopo il Napoli) ad allenare nessuna altra squadra. Quando uno è stato in quel contesto lì, ha vissuto delle partite da allenatore, ha indossato nel Diego Armando Maradona, diventa difficile poi tornarci da avversario”. Non voleva indossare nessuna altra tuta se non quella del Napoli, il tecnico di Certaldo, salvo poi scappare a gambe levate qualche settimana dopo, adducendo ad una voglia di prendersi un lungo periodo di riposo. Ma quando qualche mese dopo chiama la Nazionale, la stanchezza improvvisamente passa e fa di tutto, anche di eticamente scorretto, per liberarsi da un contratto un tempo determinato a non voler sciogliere. Ora gli toccherà andare non solo da avversario contro quel Napoli che diceva di non voler più come avversario, ma addirittura alla testa di una maglia bianconera completamente antitetica al codice del tifo calcistico del capoluogo campano.

Non è la sola eresia in atto nel calcio italiano, considerato la presenza di Antonio Conte sulla panchina del Napoli, ovvero di una persona che della fede bianconera ne ha fatto quasi una religione, un rito pagano da osservare quando non ci sono ambizioni e soldi di mezzo. “Sono un professionista, ed io se allenerò mai l’Inter o il Milan sarò il loro primo tifoso. Sono un professionista, so che questa cosa ad alcuni fa un po’ ridere”, siamo alla vera commedia dell’arte, alla retorica buttata lì come fosse sul serio una coperta così larga da poter coprire ogni tipo di malefatta e di disonore. Nella “Società Liquida” di Zygmund Bauman, è vero, tutto ormai è ventriloquo della storia passata, ma sul serio siamo venuti al mondo unicamente per noi stessi? In questa società divenuta eccessivamente liquida e verbosa, davvero non ci sono più limiti? Appaltato il decoro alla nostra voglia di illimitatezza, lo abbiamo diluito fino a farlo scomparire insieme all’adempimento. Antonio Conte prima ha detto di sì all’Inter e poi si è accomodato sulla panchina del Napoli, gli mancano solo Fiorentina e Torino per dimostrare al mondo quanto sia professionista. Il professionismo ad ogni costo elevato a catechesi della virtù, è probabilmente la stazione finale del percorso finale di un occidente desideroso di togliersi ogni catena etica per consegnarsi unicamente alle ragioni del conto corrente.

Parafrasando Giuseppe Prezzolini, possiamo dire che “professionismo è quella parola che si trova nelle orazioni solenni dei furbi quando vogliono che i fessi marcino per loro”; un po’ fessi dobbiamo ammettere che noi tifosi lo siamo, con i nostri slogan sulla maglia e sulla militanza quasi ossessiva anti qualcosa, succede di divenire macchietta ironica quando i tifosi napoletani si entusiasmano per l’arrivo alla loro squadra del cuore di Antonio Conte. Perché se Conte è un professionista, in teoria i tifosi non dovrebbero esserlo, e allora dove sta il trucco e l’inganno? Forse nella voglia di selfie con cui i tifosi juventini hanno circondato Spalletti all’uscita del “JMedical”, uno addirittura arriva a gridargli: “Porta onore e rispetto a questa maglia, mister!”. Siamo alla circumnavigazione del surreale e dello spettacolo artefatto ad ogni costo, con accenni in sottofondo da invettiva da “Cinepanettone”: “Min**ia che applauso”. L’onore pare sempre di più una moneta senza corso, eppure Ruggero Ludergnani, qualche giorno or sono, ha portato tutto il settore giovanile del Torino, di cui è il Responsabile, in vista alla Basilica di Superga, luogo principe della memoria Granata. “La vita è diventata troppo veloce - ha detto Ludergnani -, ma io vi chiedo di fermarvi delle volte, e pensare per quale squadra giocate, e l’onore che avete di giocare per questo club”.

Ci sono cose nel calcio, per fortuna, che a volte portano indietro con la mente e con il cuore all’attimo prima che la frenesia dello spettacolo corrodesse, forse per sempre, l’anima del calcio. Superga è uno di quei luoghi dove si riacchiappa l’anima, riportandola al vagito emesso nel primo istante della venuta al mondo. Forse qualcuno di quegli adolescenti vestiti di colore Granata portati ad origliare sul sacro, un giorno diventerà professionista e approfitterà della gabola nascosta in ogni parola per cambiare artificiosamente il senso delle cose, ma per il momento tutti loro hanno una possibilità di essere portatori sani di rivoluzione. Ringraziando di cuore Ruggero Ludergnani per aver ideato e voluto l’iniziativa a Superga, torno sul prosaico e precisamente alla conferenza stampa di presentazione dell’evento del nuovo spot dell’Amaro Montenegro, con protagonisti Luciano Spalletti e Francesco Totti.

Nel clima in genere ipocrita e festaiolo di questo tipo di eventi, Francesco Totti ha pensato bene di provocare con qualche briciolo di verità il suo ex allenatore, e lo ha infilzato con delle battute sul suo essere in procinto di firmare per la Juventus: “Milano (dove attualmente vive Spalletti) Torino sono solo cento chilometri di autostrada. Magari a Torino trovi il casello chiuso, non si sa”. Spalletti si è contorto su se stesso, ci sono stati attimi in cui sembrava uno dei tanti personaggi buffi e un po’ cialtroni del teatro di Carlo Goldoni, poi, scappando palesemente dalla provocazione, sbuffando ha ricordato al “Pupone” che “pensavo fossimo qui a parlare dello spot”. Ai “Bravi” del calcio contemporaneo non piace confrontarsi con la verità delle loro azioni, preferiscono le minute agiografiche degli uffici stampa, quelle dove tutto e minimizzato e non succede mai niente di grave, e dove l’invito è sempre quello di guardare al futuro. Nel futuro di Luciano Spalletti ora c’è un contratto di soli sette mesi, di quelli concessi ad allenatori o giocatori di cui non si è sicuri del rendimento, un vero schiaffo all’orgoglio di un allenatore dal curriculum del tecnico toscano. Ma Spalletti, dopo l’umiliazione dell’esonero dalla panchina della Nazionale, aveva bisogno di una sfida talmente importante da poterne riscattare e oscurare il ricordo. La Juventus di oggi può dargli questa possibilità, o mettere definitivamente un macigno sulla sua carriera. Che dire, se non salutarlo con un pensiero di Albert Camus: “Ero solito pubblicizzare la mia lealtà e non credo che ci sia una sola persona che ho amato che alla fine non ho tradito”.

Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.

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