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Il venerdì nero del ‘Corriere dello Sport’

Loquor / Elie Wiesel diceva che “non potremo mai capirci, finché siamo perfetti capri espiatori”. Non deve essersi ricordato questa frase chi ha pensato il titolo del “Corriere dello Sport” riferendosi al “Black Friday”

Anthony Weatherill

"“Io e Magic Johnson saremo

sempre daltonici

Larry Bird

Elie Wiesel diceva che “non potremo mai capirci, finché siamo perfetti capri espiatori”, e non deve proprio essersi ricordato questa frase del grande intellettuale ebreo di origini rumene, chi ha pensato il titolo del “Corriere dello Sport” riferendosi al “Black Friday”. Il fatto è noto; qualcuno dalle parti di Piazza Indipendenza deve aver ritenuto un colpo di genio mettere a cornice del titolo(Black Friday) di prima pagina del quotidiano capitolino le foto di Lukaku e Smalling. Due giocatori di colore che si sarebbero affrontati nell’attesa sfida di San Siro tra Roma e Inter. “E’ un titolo innocente e un elogio alla differenza”, ha provato a difendersi Ivan Zazzaroni, direttore del Corriere, dalle inevitabili polemiche scoppiate un po’ in tutta Europa. Specie in Inghilterra. Spiace dirlo, perché di Zazzaroni ho simpatia e stima, ma credo che il giornalista bolognese proprio non si sia reso conto della topica presa. Sarebbe falso e ingeneroso attribuire al direttore del quotidiano sportivo inclinazioni razziste, ma sicuramente si può parlare di inclinazione alla superficialità. Oggi più che mai il mondo è fatto di parole, scritte e parlate, che hanno dato vita a numerosi neologismi, di cui un professionista della comunicazione non può non tenere conto. Un neologismo proveniente dagli Stati Uniti e sicuramente “Black Friday”, ovvero quel giorno dell’anno in cui in tutto il pianeta si incontrano domanda e offerta di merci vendute a prezzi scontatissimi. E’ facilmente comprensibile, quindi, anche alla persona meno avveduta, come nel comune sentire della gente questo giorno sia associato a qualcosa che si compra o si vende. Credo nessuno di noi si sentirebbe a proprio agio ad essere considerato analogicamente ad una merce. Avvertiremmo un disagio, che nella gente di colore è presente da molti secoli, cioè dal momento in cui furono costretti, nella condizione di merci appunto, ad inserirsi forzatamente nella storia occidentale. Una “merce” assolutamente necessaria per mandare avanti, con manodopera assoggettata in schiavitù e senza diritto a nessun salario, immense piantagioni di tabacco, cotone, zucchero, caffè.

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Qui non siamo nemmeno “all’esercito dei lavoratori di riserva” di marxiana memoria, ma alla regressione forzata da essere umano ad oggetto. Allo svuotamento dell’anima. Perché alla gente di colore,per secoli, non è stato nemmeno riservato un trattamento da “nemico”. Diversamente ad altre forme di razzismo(purtroppo il campionario umano sull’argomento non si è fatto mai mancare nulla), la persona di colore non veniva mai considerata un nemico per l’ordine costituito, religioso o sociale che fosse. La persona di colore, semplicemente, non aveva lo status dell’esistere. Era il trionfo dell’indifferenza esistenziale sulla sua psiche, e chi ha provato l’indifferenza sa di cosa si parla. Sempre Elie Wiesel sostiene come “nella storia ebraica non ci sono coincidenze”, ad indicare come tutti i gesti e le parole operate contro i “diversi” dall’ordine costituito, alla fine finiscono per generare contro di essi conseguenze drammatiche, dagli esiti spesso feroci. Chi è stato, almeno una volta, nella condizione di “diverso” sa bene quanti cascami dolorosi può avere nell’ordinario quotidiano, l’essere oggetto di luoghi comuni che fanno davvero male. Fanno male non solo nel presente, ma anche nell’essere costretti a tornare indietro nelle memorie familiari. Dove tutto era persecuzione e “no more tommin”(non più tommin), l’accorata espressione, attraverso uno spiritual, che gli afroamericani rivolgevano a Dio per essere liberati dall’eccessiva sottomissione all’uomo bianco. Tutti gli uomini di colore(compreso i due giocatori) che hanno letto quel titolo scellerato, devono aver provato dolore, rabbia e sconcerto. Perché ciò che Zazzaroni proprio fatica a capire, nel suo tentativo maldestro di difendersi, che a volte non sono importanti le intenzioni con cui ci rapportiamo con gli altri, ma piuttosto come gli altri recepiscono queste nostre intenzioni. Ma ormai siamo in un’epoca in cui la vanità e la supponenza vincono su tutto, e fatichiamo ad ammettere un nostro errore marchiano. Viviamo l’errore come un’umiliazione inflitta alla nostra “regale” persona, e quindi ammettere la colpa ed inginocchiarsi davanti ad essa è qualcosa di irrealizzabile anche solo pensarlo. E’ il male del tempo moderno, come anche la Chiesa Cattolica potrebbe testimoniare facilmente. Mai come in questo tempo, nei suoi duemila anni di storia, i fedeli disposti ad inginocchiarsi davanti ad un confessionale sono sempre di meno o restii dal farlo. La colpa, o l’assunzione dell’errore, sembra essere vissuta come una cerimonia formale di altri tempi. Il qualcuno che indica il nostro errare, viene vissuto come un nemico, colpevole di aver saccheggiato il nostro ego. Sarebbe bello se, preso da un soprassalto di coscienza, Ivan Zazzaroni decidesse di uscire con un titolo di prima pagina eloquente: “abbiamo sbagliato. Perdonateci”.

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Poi sarebbe ancora più bello, se il direttore vergasse un articolo dove non solo accettasse la sanzione comminata dalla Roma ai suoi giornalisti(esclusione fino a gennaio da tutti gli incontri stampa del club capitolino), ma che la ritenesse anche giusta e doverosa. Ma questi sono sogni arditi, perché il razzismo sovente si combatte con parole retoriche e senza fatti conseguenti ben precisi, ecco perché negli stadi si continua ancora ad offendere i giocatori di colore. Ecco perché il razzismo, sotto ogni tipo di forma, continua ad essere massicciamente presente nella nostra società. Avrebbe dovuto riflettere, Zazzaroni, sulla pesantissima accusa lanciata dalla calciatrice della Juventus, Eniola Aluko: “mi sono stufata di entrare nei negozi e sentirmi trattata come se il proprietario si aspetti che io rubi qualcosa. Troppe volte si arriva all’aeroporto di Torino e con i cani vieni trattata come fossi Pablo Escobar. Nel calcio italiano c’è un problema e la risposta a questo mi preoccupa molto, dai presidenti e dai tifosi del calcio maschile che sembrano vederlo come una parte della cultura e del tifo”. Ecco la cosa che dovrebbe fare più male, la Aluko accusa il sistema calcio italiano di aver accettato culturalmente certi modi di fare. E allora quasi non sorprende il titolo di un giornale che addita due giocatori riferendoli ad un giorno di scambio merci, un titolo che orizzonta il focus sul colore della loro pelle, facendoli così precipitare nello scomodo ruolo di capri espiatori.

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E’ una comunicazione cieca rispetto alle criticità che sta attraversando il Paese, dove ogni giorno si rischia di confondere il problema dell’emigrazione con il problema del razzismo. Finendo per svilire sia l’uno che l’altro. Fossi nato americano, non nascondo che avrei votato repubblicano, ma il giorno in cui il democratico Barack Obama è stato eletto Presidente degli Stati Uniti lo avrei ascritto come uno dei giorni più importanti della vita della nazione. Perché non mi sarebbe importato i motivi di lobby, di giochi potere o di quant’altro di negativo qualcuno avesse potuto prefigurarmi tale elezione. Avrei pensato a quelle persone oggi anziane che, bambini di colore negli anni 50, in America non potevano nemmeno recarsi nello stesso bagno pubblico dei bianchi. Avrei pensato alla loro emozione e alla vita che, nonostante il nostro cinismo contemporaneo, continua a regalarci senza sosta meraviglie. La meraviglia… conseguenza di una speranza realizzata, come l’attesa delle gesta tecniche del nostro calciatore del cuore concretizzatesi in una magia giunta nel fondo di una porta. Siamo nati per essere felici, non per essere disperati, anche se c’è sempre qualcosa a spingerci verso l’abisso di un errore senza fine. E allora, pur di cercare soldi e ammirazione, spesso dimentichiamo quanto vale un abbraccio e cadiamo nella ricerca di un motivo di conflitto. Siamo perfetti capri espiatori e maldestri carnefici, e ciò, a pensarci, a volte immalinconisce davvero. Vorrei avere la forza di un’amica molto credente che, di fronte alle continue bestemmie provocatorie di un noto attore continuamente a lei riservate, un giorno, sorridendo con dolcezza, decise di fargli una confidenza: “sai, io ti invidio molto. Perché un giorno tu avrai una sorpresa di molto superiore alla mia”. Oh, come vorrei avere quella forza e quella arguzia. Vero Ivan Zazzaroni?

Di Anthony Weatherill

(ha collaborato Carmelo Pennisi)

Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.

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