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“Non bisogna mai avere paura di mostrare la propria fragilità, avere pudore per la sofferenza, che accomuna tutti gli esseri umani”, scrive Giovanni Allevi, e se pensi a ciò il cuore si stringe e pensi a quanta fatica abbia fatto Spalletti a raccogliere le sue poche e povere cose portate con se a Napoli e ritirarsi stressato e contrito nelle campagne toscane. “Sono fragile”, sembra dire il cranio lucido dal ricordo di una presenza tricologica e ora madido di sudore, e tu, sospinto da una stampa pronta ad andare in soccorso a questi emarginati contemporanei, alla fine gli credi. Non puoi non credergli, la pena sarebbe quella di costringerti a confinarti nel tuo cinismo da tifoso stronzo. “Toccami, piano piano sono un fiore fragile/che libera un profumo dolce e amabile/se mi raccogli tutto finirà”, canta Biagio Antonacci, e la Federazione Italiana Gioco Calcio subito lo prende in parola (si sa come il ponentino romano faccia viaggiare nell’aria rime e suggestioni), e va a chiamare Spalletti chinato su aratro e buoi, ma ancora contrito nell’animo per lo stress subito all’interno del limes partenope. Aurelio De Laurentiis si fa girare un po’ le balle e prova a ricordare a questo contadino dall’animo gentile prestato al calcio come esista un contratto in essere, in teoria ostacolo insuperabile per andarsi a sedere sulla panchina della Nazionale, “e poi sei stressato, non vorrai mica stramazzare al suolo nei campi verdi del Centro Tecnico Federale di Coverciano”? La sintesi della risposta spallettiana proviamo a farla con qualche licenza poetica, sperando sia passibile di perdono: “del contratto che mi lega ancora al Napoli me ne fotto, e l’aratro nel frattempo ha ripreso il mio cuor e ha ridato nuovo vigore all’animo”. Le cose nell’animo e nel fisico cambiano in fretta, e per una montagna di euro la disponibilità di dimenticarsi di una fastidiosa allergia alla sabbia può tutto e allora giocare tra le dune non è più un incubo. Anche due milioni di euro netti l’anno per tre anni devono essere un buon viatico per dimenticarsi di essere forse stati troppo presi dalla suggestione dell’enormità dell’emolumento al momento della firma del contratto, per immaginare nozze in seguito fatte con dei fichi secchi.
Certo esisterebbe la “Sacra Rota” per annullare un matrimonio avvenuto attraverso un para inganno, ma Ivan Juric deve essere giunto istantaneamente alla conclusione come sei milioni di euro netti valgano bene tre anni di “Cayenna” cairota. Dotato di ego smisurato ha scelto di perseguire la strada del cornuto senza però essere mazziato. Ed eccolo sparare a cicli regolari bordate, declinate e sottintese in vari modi, sulla scarsa qualità della rosa, sull’incapacità di Davide Vagnati di scoprirgli giovani talenti da sgrezzare, di un Urbano Cairo non sostenuto da sufficiente ambizione. Un racconto portato avanti nei primi due anni di contratto e confortato dall’appoggio dei tifosi perché corrispondeva, e corrisponde, alla realtà dei fatti concreti. Urbano Cairo è notoriamente persona dalle ambizioni, diciamo, misurate e Davide Vagnati non è certo noto per le sue doti divinatorie di mercato. La volpe di Spalato soffre ma non si dimette, due milioni di euro netti l’anno sono un ottimo cuscino su cui addormentarsi serenamente la sera. E poi ha indiscutibile talento, quindi nel deserto da deflagrazione postatomica trovato al suo arrivo in Granata, ha la capacità di ricostruire una identità di gioco alla squadra. C’è naturalmente da essere orgogliosi dal lavoro fatto, ma il piano fattosi largo nella mente della Volpe di Spalato è chiaro: i rapporti con Urbano Cairo si sono ormai deteriorati (uno non gli perdona di essere stato preso semplicemente come foglia di fico per coprirsi davanti alla montante contestazione dei tifosi, l’altro non gli perdona e non capisce come si possa essere così ingrati di fronte a due milioni di euro netti l’anno pagati regolarmente), ed è chiaro come nel terzo anno di un contratto ormai in scadenza bisogni trovare un scivolo drammaturgico credibile per uscire bene di scena davanti agli occhi del mondo. Quest’ultimo deve ben comprendere il grande lavoro fatto al Toro, e il perché si lasci senza nemmeno a provare a discutere con Cairo un prosieguo.
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La cosa, lasciata senza drammaturgia, sarebbe solo un ossimoro indigeribile. La Volpe di Spalato, come una vera volpe consumata, aspetta una vittoria ad effetto, quella contro il Milan, per sparare la sua strofa letteraria immortale nell’affollato etere dell’infodemia sportiva: “me ne vado perché non c’è amore”, dice davanti ai microfoni di Sky. I tempi in drammaturgia sono tutto e pare che all’interno della “Holy Trinity Church” di Strafford –upon-Avon a quel punto si sia sentito distintamente un applauso provenire da luogo dove riposa William Shakespeare. Il calcio è tirato nel basso ventre di Urbano Cairo e la colpa viene scaricata sui tifosi poco innamorati della squadra, così come la nuova moda impone. Mentre vorrei urlare tutto la mia disapprovazione a Cairo, De Laurentiis, Juric, Di Lorenzo, Spalletti e affini, mi giunge un messaggio: “con 43 tifosi del Toro abbiamo scritto e firmato una lettera di ringraziamento per la magnifica stagione fatta e l’abbiamo inviata alla squadra”. Poso il telefono sulla scrivania e il pensiero mi va ad Anthony Weatherill. Aveva ragione lui, i tifosi sono l’unica cosa da salvare del calcio contemporaneo. La prossima stagione saranno ancora lì, e io con loro, a seguire trepidanti le gesta di questo magnifico e infinito gioco. Non so se amore o patologia, ma per me i tifosi presenti sulle gradinate di uno stadio sono l’abbraccio di una storia, e la cosa mi fa battere ancora il cuore.
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Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.
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