
Chi ha capito tutto, invece, è chi compra giocatori sopravvalutandoli rispetto al loro reale valore di mercato, oppure chi paga sontuose commissioni a procuratori per operazioni di mercato a dir poco opache, oppure chi giudica leciti gli stipendi scandalosamente opulenti di tutte le componenti del calcio, sempre pronte a far notare con tono grave e dialettica condita di scioccanti dettagli come sia sulla soglia di un crollo finanziario dello sport più seguito al mondo. Cosa vuoi capisca Quinto Orazio Flacco, poeta nell’antica Roma, quando avverte come ci sia “una giusta misura nelle cose, che ci sono giusti confini al di qua e al di là dei quali non può sussistere la cosa giusta”. Ai signori del calcio contemporaneo quando gli si parla di giusti confini prima ti guardano sgomento, poi, compreso di trovarsi davanti ad uno scrittore, cominciano a ridacchiare, poi subito dopo, per sicurezza e visto che hanno sentito parlare di confini, aprono una società anonima in Lussemburgo. Perché non si sa mai.
Un giorno forse qualcuno, finalmente, riuscirà a trovare un motivo ragionevole per cui ad alcuni stati si consentano politiche fiscali e di diritto societario pensate appositamente per criminali ed elusori del fisco. Ad oggi la politica, quando si parla di questi argomenti, riesce nell’impresa di dare spiegazioni quasi da comicità da avanspettacolo. Certo è difficile raggiungere l’umorismo lirico di Mario Giuffredi (procuratore) e Luca Parnasi (costruttore), che nell’inchiesta di “Report” giustificano ingenti versamenti di soldi a terzi come delle semplici regalie. “I soldi non sono nulla, servono solo a rendere l’uomo schiavo”, diceva Bob Marley, un altro intento a scrivere versi declinati in canzoni, quindi un altro perditempo e retorico scrittore di mondi inesistenti. Nel reale ci sono calciatori che, in cambio di “conio” da spendere, vendono persino la loro immagine a detersivi e pessime fiction. Bisogna pure continuare a “realizzare” qualcosa una volta appese le scarpe al chiodo, per buona pace per il cantastorie giamaicano, probabilmente in preda a qualche sostanza stupefacente nei suoi tentativi di provare a redimere il mondo. Ma se si prende in esame un’altra chicca di “Rasta Man” (“quando i discografici pensano prima al denaro che alla musica, la musica non avrà il valore che loro pensano abbia”), si può facilmente comprendere, analogicamente, cosa davvero la puntata di “Report” sul calcio alla fine abbia consegnato ai suoi sconsolati spettatori: si da un calcio ad un pallone solo per passare alla cassa. Ed in uno sport giunto fino a questo altissimo grado di cinismo, è quasi ovvio e funzionale aver messo tutti i suoi destini nelle mani dei procuratori. A cosa servono più le reti di “osservatori” e talent scout di un tempo per scovare giovani calciatori, se basta alzare il telefono e chiamare Mino Raiola o Jorge Mendes per risolvere tutti i problemi di allestimento di una rosa di una squadra. Su questo, dalle pagine di “Tuttosport”, arriva un’interessante inchiesta di Marco Bonetto (dovrebbero leggerla tutti, anche il presidente federale Gravina), dove si descrive perfettamente, portando ad esempio le lacunose strategie societarie del Torino (la società granata da tempo non ha più una sua rete di osservatori), cosa sia diventata la gestione del calcio mercato al tempo del regno incontrastato dei procuratori.

I bidoni venduti per buoni affari, con annesse ricche commissioni, hanno preso il posto del paziente lavoro di osservatori attenti, loro sì, a mettere al primo posto il valore della musica rispetto al denaro che gli gira intorno. Ecco, l’inchiesta di Marco Bonetto e la puntata di “Report” hanno avuto il pregio di mettere in evidenza come il calcio ormai non sia più in mano agli uomini di calcio, ma piuttosto a personaggi dalla morale paragonabile a quella del rapinatore di una banca, che viola con la forza il luogo dove tutti depositano il frutto delle loro fatiche e il prospetto dei loro sogni. Le due inchieste invocano implicitamente un intervento, politico e giudiziario, sullo scempio in corso nel mondo del calcio. “Non sono ricco, ma sono un pover’uomo con i soldi, che non è la stessa cosa”, ha scritto Gabriel Garcia Marquez, pensiero che fa il paio con “la vita non dovrebbe essere stampata su una banconota” di Clifford Odets. Ma costoro erano due scrittori, quindi meglio lasciarli perdere. Più utile è concentrarsi su Mino Raiola, che si definisce “un supercapitalista. Il supercapitalista vuole tutti ricchi. Ed io sono così”. Pura poesia contemporanea… opss, gli ho appena dato dello scrittore. Spero Raiola non mi quereli, non avete idea quanto tenga alla sua reputazione.
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