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Del Vecchio e il calcio

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Torna Loquor l'appuntamento con la rubrica a cura di Carmelo Pennisi

“Sfuggo ciò che mi insegue”.

Orazio

 

La paura, è sempre stata la paura di dipendere da qualcosa o da qualcuno la grande motivazione di Leonardo Del Vecchio, inventore e padrone di “Luxottica” e uno dei cinquanta uomini più ricchi del pianeta. La paura, per Del Vecchio, è sempre stato il perfetto spot della sua resilienza e del suo conquistare le vette del mondo. “Fai almeno una volta al giorno una cosa che ti spaventi”, soleva ripetere Eleanor Roosevelt, una delle donne americane più influenti di sempre, forse perché solo la paura ti porta lucido davanti ai bivi importanti dell’esistenza. Lucido per affrontare la follia. Ne ha fatta di strada l’adolescente cresciuto in un orfanatrofio milanese, da quel 1958 in cui decise di piazzare la sua piccola impresa di montature per occhiali ad Agordo, uno paesino incastonato tra i monti del bellunese che aveva, agl’occhi del ventitreenne imprenditore abituato alle occasioni offerte da Milano, una sola grande opportunità: la Comunità Montana Agordina offriva gratuitamente terreni a chiunque volesse impiantarvi un’attività imprenditoriale. Da quel momento comincia una scalata inarrestabile, che fa diventare l’ospite adolescente del “Martinitt” l’assoluto dominatore del mercato mondiale degli occhiali. Essere in questo momento storico italiano uno degli uomini più ricchi del mondo, non deve essere un’avventura agevole. Ti alzi la mattina e ognuno cerca di proporti qualche affare, proprio perché tu sei uno dei pochi personaggi davvero “liquidi” rimasti in una panorama dove ormai persino le banche fanno fatica a recuperare denaro da investire. Sei la “Madonna Pellegrina” del denaro sonante a cui tutti coloro a caccia di opportunità guardano.

Normale come in un mondo del calcio italiano privo di risorse, dove Antonio Conte ha appena mollato l’Inter fresca Campione d’Italia ma piombata in una ristrettezza finanziaria preoccupante, tutti pensino al mago di Agordo come una sorta di “Fata Turchina”, uno sceicco nostrano a cui affidare qualsiasi voglia di riscatto. È capitato, in questa improvvisa crisi finanziaria della società neroazzurra dovuto al richiamo di capitali in patria da parte del governo cinese, che Suning abbia provato, attraverso il proprio advisor, di proporre nei giorni scorsi un investimento di 200 milioni al re degli occhiali, di nota fede interista, finalizzato a garantirgli il pacchetto di controllo del club meneghino. 200 milioni per prendere un club ai nastri di partenza della prossima Champions, con relativi futuri introiti garantiti da questa partecipazione europea, e un marchio di assoluto valore mondiale. Sembrava una proposta davvero allettante, ma gentilmente declinata da Del Vecchio, senza neanche entrare nel dettaglio della valutazione della proposta. È evidente come il calcio non sia un investimento ad averlo mai interessato, poiché non ritenuto strategico rispetto ai suoi sogni di imprenditore. Al principale azionista dell’Inter non è rimasto che rivolgersi ad “Oaktree Capital Management”, un fondo di investimento americano che ha seguito, e copiato, le orme del “Fondo Elliot” al tempo del prestito a Yonghong Li per acquisire il Milan da Berlusconi: 200 milioni di prestito, prendendo in pegno la maggioranza dell’azioni dell’Inter. Se ad una certa data i Suning non dovessero restituire il debito, l’Inter passerebbe nelle mani di un fondo considerato uno dei più grandi investitori di titoli in difficoltà. Facendo una ricostruzione analitica delle ramificazioni finanziarie di “Oaktree Capital Management”, ci si può accorgere di trovarsi di fronte ad una delle tante scatole cinesi, con un’inquietante stazione finale nella grande scatola del fondo sovrano della famiglia reale saudita.

Ma la cosa a fare più riflettere, dovrebbe  essere una delle “scatole” più interessanti coinvolta direttamente nella gestione di “Oaktree”, ovvero la “Brookfield Asset Management” di Toronto specializzata in aziende  con libri contabili pieni di debiti e sull’orlo del fallimento. Famosa è rimasta la sua acquisizione, nel 2018 della “Westinghouse Electric Company”, ormai praticamente fallita, per 4,6 miliardi di dollari. La “Oaktree” che presta soldi all’Inter, è la dimostrazione plastica di come il calcio in Italia non sia un’impresa, non richieda cervelli capaci di gestire la paura per dare spazio alla follia di una visione imprenditoriale, ma sia solo occasione di speculazioni finanziarie e di ricavi, sovente opachi, fatti attraverso il “trading” dei calciatori. In un mondo così  strutturato gente come Del Vecchio non metterà mai piede, e fanno un po’ sorridere le notizie circolanti ormai da qualche tempo di un interesse dell’ Uomo di Agordo sul Torino Calcio. Per carità, non bisogna mai mettere un limite alle possibilità offerte dalla vita  e nemmeno alle speranze, ma ci sono limiti ad apparire davvero invalicabili. Quando Silvio Berlusconi prese il Milan, lo fece per evidenti ragioni strategiche rivolte al futuro delle sue imprese mediatiche, legate strettamente ad un discorso d’immagine, unico utile realmente prodotto dal calcio nazionale. Probabilmente, inoltre, nell’orizzonte del Cavaliere c’erano già delle ambizioni politiche. Ma se parliamo d’impresa, se parliamo di utili netti in denaro, il Milan per Berlusconi è stato solo un rimetterci. Franco Sensi nella causa della Roma ha dilapidato uno dei patrimoni più ingenti d’Italia. Qualcuno sussurra come la famiglia Moratti abbia sacrificato sull’altare dell’Inter quasi un miliardo di euro. E si potrebbe andare avanti all’infinito con esempi eloquenti come il mondo del calcio sia la cosa più possibile lontana dalla logica di fare impresa. A fronte di investimenti ingenti gli utili netti dei club italiani, quando ci sono, sfiorano il limite del ridicolo, ed è uno dei motivi per cui è quasi impossibile, in questo contesto, pensare in termini di investimenti infrastrutturali (gli stadi, per esempio). Si campa con gli introiti della televisione, che fanno “galleggiare” le società in perenne stato di prossimo annegamento, mantenute in vita anche per poter speculare sui loro debiti (come stanno facendo il Fondo Elliott e altri soggetti in vari modi).

Il calcio italiano è un mondo davvero incomprensibile per una mente come quella di Leonardo Del Vecchio, abituata a fare impresa, tesa a costruire cose, non a far soldi speculando su debiti o prodotti finanziari similari. Il patron di “Luxottica” è l’ultimo rimasto dei grandi imprenditori che hanno reso grande l’Italia nei primi vent’anni del dopoguerra, dove contavano la produzione delle merci e la qualità delle mani degli operai a produrle. Era l’orgoglio italiano di saper ciclicamente produrre un “Rinascimento”, dove era importante fare utili, ma dove a contare c’era anche l’idea di futuro e i sogni di chi contribuiva insieme a te a costruire questo futuro. Era il senso di una comunità capace di rendere immortale ogni tua idea, diventata una lampada rivolta verso tutte le albe a venire. Se si vuole convincere uomini come Del Vecchio ad abbracciare il calcio, bisogna che questo sport torni ad essere non una macchina per far fare soldi a palate a giocatori, procuratori, fondi di investimenti, presidenti furbi, lasciando poi attorno a loro esclusivamente terra bruciata e invasa da ipoteche debitorie. Bisogna che questo sport torni ad essere un segno di memoria, un’etica del presente e una luce verso il futuro. Non saranno i fondi sovrani arabi a salvare il calcio, perché essi lo stanno facendo per ragioni geopolitiche, e non lo faranno nemmeno i possibili più introiti derivanti da una futura SuperLeague; a salvare il nostro amato sport saranno quegli uomini capaci di mettere accanto alla voce degli utili, anche quella della responsabilità d’impresa, segno distintivo di come ci sia una vita delle persone a sostenere il significato e il valore di tutta la nostra capacità di commerciare e produrre merci. Fare bene impresa vuol dire ottemperare ad un dovere verso la comunità, vuol dire avere materialmente la possibilità di farlo. Con grande dispiacere bisogna ammettere come in questo momento nel calcio italiano non sia minimamente possibile coniugare etica ed impresa. Il mondo secondo Del Vecchio lo si può vedere in una foto del suo stabilimento di Agordo. Sembra una cartolina a ritrarre un castello incantato, talmente in armonia con la valle da potere pensare come esso sia sempre stato lì dall’inizio dei tempi. Forse il Toro avrebbe potuto essere un buon investimento per Del Vecchio, ma manca la valle, manca l’idea d’immortalità, manca la possibilità di un castello incantato. La “Fata Turchina” ha deciso di impegnarsi da altre parti, e forse la colpa è un po’ anche la nostra. Di tutti noi.

Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.

Attraverso le sue rubriche, grazie al lavoro di qualificati opinionisti, Toro News offre ai propri lettori spunti di riflessione ed approfondimenti di carattere indipendente sul Torino e non solo.

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