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Quando Adolf “Adi” Dassler, fondatore dell’Adidas, mette ai piedi di Jesse Owens le sue scarpe ai Giochi Olimpici del 1936, ancora non si ha la percezione di quanto stia per accadere nel modo di fruire lo sport. Dassler è stato un genio dell’imprenditoria, ma ha sicuramente aperto il varco decisivo verso lo sport non come occasione di socializzazione e di superamento dei propri limiti, ma come modalità di consumo. Ci vuole una guerra devastante e un colpo di fortuna ancora più grande di Jesse Owens, per permettere all’Adidas la possibilità di dimostrare che una mutazione da sport a spettacolo, per il calcio, era possibile. Il 4 luglio del 1954 al “Wankdorfstadion” di Berna si affrontano Germania Ovest e Ungheria per aggiudicarsi il primo mondiale di calcio del dopoguerra. I tedeschi sono ancora traumatizzati dal nazismo e dalla divisione forzata in “Est” e “Ovest” del loro Paese, che si trova, grazie alla ripresa economica, nella fase dell’aver superato “l’ondata del cibo” (Frebwelle) e “l’ondata dei mobili” (“Mobelwelle”). La finale di Berna giunge del tutto inaspettata, e torna a presentare i tedeschi al centro di uno degli avvenimenti più importanti del mondo. Non è poco per una nazione alla ricerca di ritrovare fiducia in sé stessa. La storia è nota, i tedeschi vincono la Coppa del Mondo piegando in finale una delle più grandi squadre di sempre, la “Grande Ungheria” di Puskas. Quella partita verrà ricordata come il “Miracolo di Berna” (esiste un film piacevole e interessante sull’argomento), e il furbo Adi Dassler si era trovato al posto giusto e al momento giusto, scegliendo di equipaggiare con i suoi prodotti la “Mannschafft” alla scalata della sua prima vittoria iridata.
Il terreno, in Europa, ormai era sempre più fertile, perché risolto il problema dei mobili e del cibo, la classe proletaria stava avviandosi verso quell’ozio mai stato loro appannaggio dall’inizio dei tempi. Il benessere sempre più diffuso avrebbe posto, da lì a poco, la necessità di consumo stratificato. A quel punto comprare un paio di scarpe, magari Adidas, identiche a quelle calzate da un giocatore tedesco o italiano sarebbe diventato lo scopo occulto determinante della mutazione da tifoso a consumatore. Il processo, come si è detto, è stato più lento di quello avvenuto attraverso la musica e il cinema, ma è stato inesorabile. Dalla fine degli anni ‘70 in poi, l’urbanizzazione forzata delle città come facile risoluzione di impiego di capitale in eccedenza, ha fatto sparire i campetti polverosi o di asfalto ricavati tra i grandi palazzi della classe lavoratrice, che diventando sempre più agiata decide come una “scuola calcio” a pagamento sia in fondo uno dei segni tangibili di una raggiunta opulenza. Nel mentre scompaiono anche gli oratori, inghiottiti da genitori ossessionati dal contingentare e controllare sempre di più la vita della propria prole, e da una scuola dai tempi ancora più lunghi. L’irrompere della televisione completa il sogno, per me perverso, dei tipi alla Adi Dassler, mutando il calcio da sport e occasione di incontro sociale a centro commerciale. Lo sport, la musica e il cinema sono ormai un reiterarsi di uno schema di consumo, monitorato da legioni di addetti al marketing sempre alla ricerca di prodotti da vendere. Costoro passano gran parte delle loro giornate a studiare la psicologia delle masse, cercando di carpirne in anticipo i desideri, per poi guidarne il consumo.
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Il risultato è stato aver ridotto lo sport alle regole del capitalismo, riducendolo a veicolo di consumo per il consumo. Il dramma è come non sia più concepibile per nessun motivo fermare il carrozzone, perché, appunto, l’unico motivo per cui tutto ogni giorno va in scena sono i soldi. E allora le partite senza spettatori diventano accettabili, purché le televisioni e gli spettatori paghino. Confesso come i calciatori euforici per aver segnato un gol in uno stadio vuoto o esserne, di converso, disperati per averlo subito, mi appaiono attori calati perfettamente in una parte. E mi rammarico di tale pensiero, perché forse sono io ad equivocare, perché forse loro, i giocatori, quelle emozioni di euforia e dramma le provano sul serio. Ma è proprio questo il problema: l’incapacità di capire se siamo di fronte al vero o all’immaginario. È il precipizio del capitalismo a “consumo”, che ci ha reso esageratamente deboli e tremebondi di fronte ad una pandemia, nemmeno tra le più tragiche della storia. Mi vien da pensare, provocatoriamente, che abbiamo paura di morire, molto di più dei nostri avi, perché non riusciamo a pensare alla nostra non partecipazione al consumo del giorno dopo. È quasi comico, nonostante la tragedia attuale in corso causa Covid-19, questo scontro tra chi mette al primo posto la salute e chi mette al primo posto l’economia. È uno scontro fuori da ogni canone, possibile solo da una società ormai priva di qualsiasi processo logico. Questo scontro sta avvenendo perché da tempo dalle nostre parti si è perso il senso. Nel consumo vorace è avvenuta la rovina di qualunque promessa dell’Occidente ed è stata indotta la peggiore carestia: quella morale. Siamo rimasti soli e impauriti seduti su una poltrona o davanti ad un computer. L’Occidente è ogni giorno più debole, e i suoi avversari lo sanno. Non devono sorprendere, quindi, attacchi sanguinosi come quello di Vienna. È, parafrasando John Steinbeck, l’inverno del nostro scontento.
(ha collaborato Carmelo Pennisi)
Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.
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