Ma al palazzo della FIFA di Zurigo non la pensano così, sradicare ogni cosa è diventata la parola d’ordine, specie nell’era di Gianni Infantino, una delle più incredibili facce di bronzo mai apparse sul palcoscenico del calcio. Le facce di bronzo hanno una caratteristica ad accomunarli, ogni volta qualcuno più potente accenna a volerli controllare, per provare a limitarne gli appetiti, invocano l’indipendenza dello sport. Ma il calcio non è della FIFA, egregio Infantino, questo sport è un bene comune esattamente come l’acqua o la corrente elettrica. Non si può fare qualsiasi cosa con il calcio, solo perché si vuole aumentare continuamente a dismisura il fatturato da distribuire a tutti i suoi protagonisti evidentemente mai sazi di denaro e privilegi. C’è un limite a tutte le cose che il governo del calcio ha deciso di non porsi, ecco il motivo per cui si sta pensando di far giocare alcune partite della nostra Serie A all’estero. Tentativo di espatrio di Lega già provato da altre parti, ma bloccato poiché nessuno si trova economicamente alla canna del gas come il nostro calcio, divenuto a causa di ciò assai ricattabile e seducibile. Dalle parti di Zurigo vogliono utilizzare la nostra drammatica debolezza per sfondare l’ennesimo muro etico, cogliendo come opportunità la voracità dei protagonisti della Serie A, incredibilmente restii ad accettare la fine dell’epoca delle vacche grasse. Gianni Infantino, con il suo solito piglio da Napoleone mancato, a questo punto ha deciso di mettere su un gruppo di lavoro per occuparsi della questione, che tradotto nel linguaggio contemporaneo vuol dire studiare bene come rendere profittevole per tutti gli interessi generati da questa nuova poco commendevole commedia pallonara.
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Ci si prepari, quindi, a vedere Torino Juventus non più all’ombra della “Mole” ma tra il vento sabbioso di Riyad o la luce accecante di Los Angeles. Diranno che lo si fa nel nome del calcio, perché arrivi a tutti, in modo da rendere questo sport ancora più forte e infinitamente più bello. Tu ci credi e applaudi, e dopo qualche tempo ecco come si ricominci ad andare a caccia di nuove occasioni di ricavi, con conseguente abbattimento di nuovi “limes”. Si ha poca memoria, altrimenti ricorderemmo come dovesse essere un tripudio per il calcio italiano la legge 435 voluta nel 1996 da Walter Veltroni, il comunista non comunista più americano di sempre, in cui si ammise lo scopo di lucro per i club calcistici. Erano tutti d’accordo, persino Rifondazione Comunista attraverso il suo allora responsabile economico Nerio Nesi: "ci vuole un cambio di mentalità”, disse colui che fu banchiere e comunista, altro splendido ossimoro in stile veltroniano. Come si sa, è finita male, con un passaggio in borsa dei nostri club somigliante più alla vanagloriosa guerra scatenata contro la Grecia da Benito Mussolini, che ad una nuova via dell’oro. Ci si illuse come la passione dei tifosi potesse trasmigrare tranquillamente nell’investimento borsistico, assicurando così solidità ai bilanci. Sperava, l’élite del calcio, di essere davanti ad una monetizzazione provvidenziale della nota circonvenzione d’incapace dei tifosi, e invece tutto si tramutò presto in triste barzelletta(ennesimo ossimoro stupefacente). Legare come sottostante esclusivamente il risultato sportivo ad un investimento è una idea bislacca che solo dalle nostri parti si poteva pensare di congegnare.
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Solo una élite priva di senso e di visione, ovvero quella della nostro sport che strilla all’indipendenza volendo recepirne gli onori non gli oneri, era capace di non comprendere appieno lo spirito fondativo della “Premier League”, ovvero stadi di proprietà, merchandising, bilanci corretti senza plusvalenze fittizie. Queste dovevano essere le necessarie pre-condizioni dello sbarco in borsa, invece si decise di rinviare tutto al sempre immaginifico “dopo”. Successe così anche con il nostro ingresso nell’Euro. Ci si illude di essere l’Inghilterra, e nell’Euro la Germania, e infine si scopre che siamo semplicemente l’Italia con i suoi soliti atavici difetti. Ma anche allora si volevano soldi, si volevano subito, e se ne volevano tanti. Sembra la trama di uno dei tanti bei film di Mario Monicelli, e non poteva mancare il consueto afflato proveniente da una stampa a volte è più ignorante che complice. Così entusiasticamente commentava sull’argomento il “Corriere della Sera” nel 1997: “guadagnare dai tifosi in Gran Bretagna è possibile da anni e c’è chi ha ottenuto performance del 200%”. Un commento che fa il paio con quello di Romano Prodi alla fine degli anni 90: “con l’Euro lavoreremo di meno e guadagneremo di più”.
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Gianni Infantino, italiano dentro sino al midollo nonostante la sua residenza svizzera poi spostata in Qatar (sempre per il bene del calcio, si intende), conosce bene il paraculismo da “Gattopardo” e l’avidità della nostra élite, e su questo sta giocando per sfondare le note “Finestre di Overton” a livello globale. L’investimento in azioni non ha mai portato i tifosi all’interno dei club, non ha mai migliorato in niente le sorti del calcio italiano, è stato solo un altro ennesimo modo di raccattare soldi attraverso il calcio. Eh, i talenti… servirebbero per esprimere il meglio dell’azione umana, come ricorda il Cristo nella famosa Parabola. Invece nel tempo questa parola, legata in modo ancestrale ad un dono ricevuto dal Creatore/natura, è stata prima convertita in moneta e poi depositata in banca a maturare interessi. La mistificazione ha le sue leggi, e non sempre la verità riesce a raccontarle.
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Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.
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