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Dott. Misischi: “Coronavirus? Calciatori monitorati, ma i rischi rimangono”

Esclusiva TN / Il consulente ortopedico del Torino ed ex medico sociale granata spiega la situazione attuale a tutto tondo, dai cittadini agli sportivi

Roberto Ugliono

La Serie A si è fermata, gli allenamenti dei professionisti solamente in parte e in ambito internazionale per ora il calcio va avanti. Cittadini e sportivi, però, corrono lo stesso rischio di contagio in questo momento e la testimonianza è la notizia di ieri relativa a Daniele Rugani, difensore della Juventus trovato positivo al coronavirus. A conoscere bene l'ambiente del professionismo e quello del Torino è il dottor Renato Misischi, ex medico sociale granata e ora consulente ortopedico per la società di via Arcivescovado. Lo abbiamo intervistato per spiegare la situazione attuale poche ore prima che si venisse a sapere del contagio di Daniele Rugani.

Dottor Misischi l'Italia sarà zona rossa almeno fino al 3 aprile, una situazione che colpisce tutti. 

"Il problema è il contagio, che è legato alla casualità di quello che succede nella vita quotidiana, perché puoi incontrare una qualsiasi persona ed essere contagiato. Non ci sono solo i sintomatici, ma anche i portatori sani. Le misure prese dal Governo servono per evitare i rapporti, così da essere più protetti. Gli sportivi vivono la realtà come tutti gli altri, la loro situazione qual è? Ciascuno di loro nella vita privata deve rispettare le regole che valgono per tutti, paradossalmente anzi sono ancora più a rischio, perché continuando con gli allenamenti sono costretti a stare uno vicino all’altro, quindi se qualcuno sfortunatamente fosse contagiato, sarebbe rapidamente in grado di diffonderlo a tutti".

In una situazione del genere cosa fare?

"C'è una percentuale di rischio molto alta. Se una regione super attrezzata come la Lombardia chiede di chiudere tutto, vuol dire che la situazione è seria. La nostra democrazia ha dei modus operandi lenti. Per questo è intervenuto l’esercito, così sono riusciti a contenere il picco. Noi dobbiamo cercare di limitare i malati, così da poter aiutare la sanità. Viviamo in un limbo di speranza. In ambito sportivo, i controlli e l’attenzione estrema fanno sì che il rischio sia calcolato, ma non escluso".

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La Serie A ora è ferma, ma in passato le decisioni prese sembravano avere delle contraddizioni di fondo come il non potersi dare la mano a fine partita, in uno sport che si fonda sul contatto fisico. Non sarebbe stato meglio fermare tutto subito?

"Il dubbio è se fermare tutta l’attività o no. I medici delle società sono attenti. L’attività sportiva di gruppo, però, è fortemente a rischio. Non soltanto nella competizione, ma anche nella prassi quotidiana, perché ci sono assembramenti. Nelle partite a porte chiuse vedi giocatori che si abbracciano, tutte cose che vengono vietate da tutti ufficialmente, anche dagli stessi calciatori. Allora uno rimane colpito come messaggio lanciato. Se ti dai il gomito al posto della mano a fine partita, ma quando giochi ti tocchi non cambia nulla. Non mi esprimo sulle opportunità, però, dico quello che avviene nel mondo reale. Dietro ci sono anche motivazioni economiche che possono far prendere certe decisioni e per questo non sono la persona giusta per giudicare le scelte di chi gestisce il professionismo. La gente però deve avere messaggi diversi. Io capisco che a livello sportivo ci sono difficoltà. Arrivare addirittura a parlare di un possibile annullamento delle Olimpiadi fa capire la gravità della situazione".

Adesso alcune società hanno fermato gli allenamenti della Prima squadra, dovrebbero farlo tutte? I giocatori d’altronde non si possono mettere in una bolla e nemmeno le loro famiglie.

"Il giocatore non vive in collegio. Ha parenti, figli, mogli con cui vive e c’è il rischio di aumentare il contagio. Loro sono professionisti e sanno cosa devono fare per evitarlo, ma anche loro hanno un margine di rischio. Tutto questo si cala nel contesto generale. Devono parlare i medici che lavorano in ospedale che si stanno avvicinando al collasso. Quello è il messaggio reale da dare. Gli sportivi, comunque, hanno a che fare con uno staff medico molto preparato e al momento penso che le società di Serie A siano seconde per attenzione solamente agli ospedali".

Nel contratto tra Serie A e i giocatori all’articolo 9 si spiegano le norme da seguire per la tutela sanitaria, se si dovesse andare avanti con gli allenamenti, come si può salvaguardare la salute dei calciatori e di tutti quelli che lavorano con la squadra?

"Le norme comportamentali che vengono suggerite e ben spiegate le conosciamo tutti. Spinte al parossismo che gli atleti devono vivere. All’interno delle realtà esistono percorsi. La disinfestazione per esempio viene fatta incessantemente. L’attività non può essere limitata, o si fa non si fa. I medici sono veramente attentissimi, stanno facendo grandi controlli. La situazione è più complicata in altre realtà, dove non ci sono i medici e i dipendenti devono cercare di autogestirsi. Nello sport il controllo è capillare, gli atleti e lo staff sono controllati di continuo. Io direi più che in altre realtà. Questi discorsi valgono per la Serie A, più scendiamo più queste attenzioni sono diluite. Il medico in Lega Pro non sempre è presente e queste realtà sono meno. Noi ci focalizziamo sulla Serie A, dove i medici sono martellanti, prudenti e hanno messo in campo ogni possibile prevenzione".

Le donazioni che stanno arrivando agli ospedali possono aiutare un sistema sanitario che sembra vicino al collasso?

"Qui il problema è un altro. Innanzitutto di personale, perché dev’essere idoneo per gestire la situazione. Negli anni c’è stato un grande risparmio sulla sanità, diminuendo personale e letti disponibili. Purtroppo anche i medici si ammalano. Poi c’è un problema di attrezzature. Non solo c’è la difficoltà nel ricoverare, ma anche per la terapia intensiva. Tutte le donazioni sono utili per aumentare la disponibilità economica, ma non risolvono il problema. Anche negli altri stati c’è attenzione nel privarsi di attrezzature. Il problema è trovarle sul mercato. Ben venga che arrivino dalla Cina i respiratori. Tutte queste attenzioni sono per far sì che al posto di un picco ci sia un aumento lento. Così da evitare un afflusso massivo negli ospedali. Questo comporta la chiusura di tutto. Il bene primario ora è la salute e non tutti lo capiscono. Stiamo combattendo un nemico invisibile e questo lo rende ancora più pericoloso. Sia ben chiaro, le donazioni sono utilissime e sono un bel gesto, ma qui il problema è che mancano le attrezzature sul mercato".

Quando i casi saranno diminuiti drasticamente, dopo quanto si potrà tornare alla normalità?

"Non lo so, è inutile fare previsioni. Non credo ci possa essere una ripresa a tempi brevi. Tutto questo si spinge di settimana in settimana. Il 3 aprile è tra tre settimane e difficilmente in quel momento non ci sarà più il virus. Quando i contagi diminuiranno dovremo provare a riaprire delle attività per vedere cosa succede. Ma parliamo di ipotesi e difficilmente si può azzardare. Virologi e statistici hanno mezzi più sofisticati di me. Io credo che ora la nostra priorità dev’essere pensare a contenere il più possibile il picco. Seguendo le regole e stando tutti attenti, ci sarà una grande gioia di ripartire. Sarà come quando finisce la scuola e iniziano le vacanze estive. Ci sarà quel senso di libertà e di gioia irrefrenabile".