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Esclusiva

Umberto Motto: “Il Grande Torino vive ancora. Da Novo a Ferrini, i miei ricordi”

Le parole in esclusiva a Toro News dell’ex capitano della squadra giovanile del Torino che completò il campionato 1948-1949 in luogo del Grande Torino scomparso a Superga il 4 maggio di 72 anni fa

Gianluca Sartori

Memoria storica immarcescibile, quasi 91 anni e una lucidità impressionante nel ricordare nomi, cifre e date: Umberto Motto era il capitano della squadra giovanile del Torino che completò il campionato 1948-1949 in luogo del Grande Torino scomparso a Superga il 4 maggio di 72 anni fa. Di quel gruppo di ragazzi che scese in campo al Filadelfia con una responsabilità enorme il 15 maggio 1949 contro il Genoa (risultato 4-0 per il Toro), Umberto è il solo superstite insieme ad Antonio Giammarinaro, che oggi vive a Pescara. Umberto, invece, è nato ed ha sempre vissuto a Torino, e si concede volentieri a Toro News per condividere alcuni dei suoi ricordi quando è vicino il 72° anniversario della Tragedia di Superga.

Signor Motto, anzitutto come sta?

Un problema alla schiena mi impedisce di camminare come vorrei, ma per il resto sto bene. Ho fatto anche il vaccino anti-Covid, entrambe le dosi. Se devo uscire mi faccio accompagnare dal mio caro amico Gianni Bersia, fratello del Piero Bersia che al Torino mi sostituì”.

Quest’anno andrà a Superga il 4 maggio?

Il 4 non ci vado mai; sono sempre andato qualche giorno prima o qualche giorno dopo perché il frastuono che c’è il 4 maggio non mi piace, ho sempre la sensazione che molti non vadano lì per ricordare quei giocatori”.

Ma come si sente quando si avvicina il 4 maggio, a distanza di più di 70 anni?

Per me il Grande Torino è sempre vivo, io a loro penso spesso, non solo il 4 maggio. Mi sento ogni tanto con Giammarinaro per tenere vivi i nostri ricordi. Lui è l’unico compagno dell’epoca che mi è rimasto, purtroppo di recente sono mancati il portiere Vandone, con cui salivo spesso a Superga, e Audisio. Sa, siamo novantenni, quando il destino ti chiama, ti chiama…

Domanda che le avranno fatto in tanti: quali sono i ricordi più vividi che si porta dentro?

Tanti, ricordo bene tutto. Così su due piedi penso alla passione con cui Novo costruì la squadra; ero giovane ma ricordo bene che pensava il fratello all’impresa di famiglia perché lui era sempre dietro al Toro. Non era su quell’aereo ma è come se a Superga fosse morto anche lui. Oppure la capacità di insegnamento di Erbstein, che con i giovani calciatori era un maestro da tutti i punti di vista. Per lui prima del calciatore veniva l’uomo. Sono poi indimenticabili le partitelle infrasettimanali al Filadelfia tra la prima squadra e noi giovani, a portieri invertiti; Vandone giocava con Mazzola e compagni, Bacigalupo giocava con noi per essere impegnato di più. Erano partite accanite, perché noi alla fine li conoscevamo bene. Poi un giorno un giocatore della nostra squadra, Ferrari (che, sarà un caso, si diceva tifoso della Juventus) fece una brutta entrata su Mazzola, il quale si alzò e gli tirò uno schiaffo. Erbstein fischiò la fine anticipata e quella fu l’ultima partitella tra noi e il Grande Torino. E poi ricordo bene l’amicizia tra mio padre e Novo”.

Suo padre Ermanno ebbe un ruolo in società, giusto?

Non proprio in società. L’organigramma societario del Grande Torino era piuttosto esile; oltre al presidente Novo c’erano Civalleri, Agnisetta e il segretario Erbstein. Mio padre faceva parte di un gruppo di sette imprenditori torinesi, chiamati “il Settebello”, che sostenevano economicamente il Torino. Aveva aperto nel 1925 insieme a mia madre un maglificio che arrivò ad avere, pensate, 1200 dipendenti. E una volta che io entrai nelle giovanili si offrì di fornire, gratuitamente, le nostre divise. Così diventò amico di Novo e al Filadelfia vedeva tutte le partite insieme a lui nel parterre. A Novo piaceva anche stare in mezzo ai tifosi per sapere cosa ne pensavano del suo Toro. Che grande presidente è stato!”.

Anche lei, Umberto, ebbe un ruolo in società dopo che smise di giocare.

Sì, entrai nel Consiglio di Amministrazione del Torino pochi anni dopo Superga. Dicevo sempre che sarei rimasto fin quando il Toro non avesse di nuovo vinto lo Scudetto. E infatti mi dimisi poco dopo il 16 maggio 1976. Custodisco l’orgoglio di aver contribuito a portare al Toro giocatori come Agroppi, Vieri e soprattutto Giorgio Ferrini. Ricordo benissimo come Giorgio arrivò in granata. Avevamo un collaboratore bravissimo, Antonio Forcone, che girava gli oratori e i campetti d’Italia per vedere giocatori. Un giorno – era il 1955 - mi telefonò dicendomi che alla Ponziana, una piccola squadra di Trieste, c’era un giovane interessante, e bisognava muoversi perché lo seguivano pure Inter e Juventus. Mi attivai con la persona che era il finanziatore della Ponziana, che era una delle figure più importanti della Grandi Motori Trieste. Trovammo l’accordo e portammo Giorgio a Torino. Ho voluto bene a tutti i giocatori di quel periodo, ma a Giorgio mi legava un affetto particolare: da giovanissimo veniva in maglificio a lavorare al mattino, poi pranzava a casa mia e al pomeriggio si allenava. Questo era il giovane Ferrini”.

E con il Torino di oggi che rapporto ha?

Un buon rapporto, ricordo che Antonio Comi organizzò una bella giornata con la famiglia del commendator Beretta in occasione della rinascita del Filadelfia. Io sono stato compagno di scuola del fratello di Vittore, che è stato uno dei miei migliori amici. Fu una bellissima giornata. Ci sono invece rimasto male quando il Toro non ha dato molto seguito a una segnalazione mia e di Giammarinaro su un giovane che si poteva prendere per le giovanili, ma tant’è. Penso sempre che in un club di calcio la cosa più importante sia la società. Cairo farà il salto di qualità quando formerà la squadra più giusta di collaboratori”.

Il Torino si salva?

Io sono fiducioso, mi sembra che come organico il Toro sia superiore ad alcune delle concorrenti. Guarderò sicuramente la partita con il Parma. Non sono mai più andato allo stadio dagli anni Settanta perché sento di appartenere a un’epoca precedente. Ma alla tv non perdo una partita”.