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Ferrante segna di continuo. Trasforma i rigori che arrivano un pochino più copiosi del solito (coscienza sporca dall’anno prima?) e mette nel sacco ogni cosa che gli capiti a tiro e in qualsiasi modo. Marco ha nel mirino la promozione e il record di ventisei gol di Fanello in serie B. Un suo tiro deviato da Frezza, in casa del Chievo, verrà rivendicato come suo in questa lunga corsa, con la Gazzetta che glielo assegnerà, secondo le nuove norme, e altri giornali inspiegabilmente no. La lega stessa, inspiegabilmente no. A fine anno saranno ventisette, ma tocca leggere ventisei. La partita decisiva è il primo maggio 1999, a tre giorni dal cinquantenario di Superga. A tempo scaduto, sul 2-2, è lo spirito di Gabetto a dare la forza a Ferrante, claudicante, di colpire di testa il cross di Sommese e regalarci una gioia unica. Contro l’Andria, sul neutro di Benevento, l’incubo triennale finisce grazie anche al gol della sicurezza di Ferrante, sgusciante nell’andare via e preciso nel diagonale del provvisorio 3-1 che blinda la A e non poteva essere diversamente. Nello svenimento collettivo contro la Reggina a fine campionato è la sua testa, su corner, a chiudere la stagione. Nel difficile campionato di A è sempre lui a inaugurare le marcature con una zampata su assist di Ivic contro il Venezia per l’1-1, poi crossa per il 2-1 in spaccata di Artistico allo scadere. Contro l’Inter il Toro gioca bene, c’è un rigore. Ferrante non lo tira male, ma Peruzzi compie un miracolo. A Cagliari, il sabato dopo, ce n’è un altro. Ferrante sul dischetto come nulla fosse, Scarpi la tocca, ma la palla entra. “Ho tirato così forte che stavolta non l’avrebbe presa neanche Jascin”. Dopo un buon inizio il Toro, in seguito alla vittoria in nove sulla neve di Verona, si blocca. Toro che era in nove anche per l’espulsione di Ferrante dopo una gomitata a Brocchi. Arrivano sei sconfitte consecutive, qualcuna meritata, qualche altra no e dopo la più drammatica, col Lecce (doppietta di Lucarelli), il nove viene messo in discussione.
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Adorato quasi incondizionatamente dalla curva, a volte Marco viene criticato per motivi astrusi da altri. Qualcuno arriccia il naso perché “fa gol furbi, da gobbo” (ma che cazz) o lo definisce il bomber delle retrocessioni e degli spareggi (sic) persi. Di fronte a certe affermazioni, la sua risposta possibile è una sola: il gol. Gol di testa col Piacenza, doppietta al Bologna (secondo gol fantascientifico con Pagliuca che che ironizza su come gli sia venuto un tiro simile, denotando un certo bruciore), rovesciata a tempo scaduto col Venezia che vale il 2-2 quando al 90’ eravamo sotto 2-0. Chi era in discussione? Nessuno, scusa. A Bari un’altra punizione stupenda, liftata, da piede delicatissimo. Solo Ademino Ljajic le tirerà così, ma questo è un tempo che deve ancora arrivare. In casa con la Fiorentina un destro vincente al volo è il preludio al derby, che perdiamo in modo incredibile (due autoreti, una di Brambilla da trenta metri), mentre tutte le dirette concorrenti per la salvezza vincono. Però in quella stracittadina paradossale, dove Collina fischierà un penalty per un fallo di Zidane di Tricarico nel finale, che è un po’ come dire che l’uomo morde il cane, Ferrante sfoggia per la prima volta l’esultanza che lo renderà immortale. Le corna del Toro. Le fa sul rigore dell’1-1, puntandole sotto la Maratona. Ai tempi si veniva ancora ammoniti se si andava sotto la curva e quindi ci accontentiamo di vederle da lontano.
Il Toro crolla, Vidulich lascia, arriva Cimminelli, l’ultima speranza arriva con una vittoria contro la Reggina, sotto forma dell’urlo violento che parte quando Ferrante realizza un’altra punizione capolavoro. Un mio amico gobbo e un po’ reggino continua a dire che quella partita era combinata, era il favore da restituire l’anno prima, che quella punizione l’hanno fatta entrare. Ma guardatela, colpisce il palo e finisce dentro, è perfetta. E’ imparabile. E allora, come ogni volta che entriamo nel discorso, pernacchione per il mio amico gobbo e un po’ reggino, devo ricordarmi di Ferrante che si fa di nuovo tutto il campo per venire verso di noi, non ho tempo. A Lecce, in un drammatico remake di undici anni prima, si scende. L’ultima in casa col Piacenza vede tutti fischiati tranne Marco che segna due gol che lo portano a quota diciotto. Primo italiano, alla pari con Montella, in classifica marcatori. Ma non era adatto, giusto? L’anno successivo, in B, qualcosa non gira e, a metà stagione, Ferrante va in prestito all’Inter con otto gol segnati. Guarderà da lontano il Toro di Camolese rimontare e vincere il campionato. In quella cooperativa del gol, finirà con essere comunque quello ad avere segnato di più, alla pari di Schwoch, anche se lo ha fatto nel momento più buio del campionato. Quando Ferrante viene ceduto, la curva, alla prima interna senza di lui, gli tributa un coro. Paolo, se non ricordo male, dirà di fargli un gol per ringraziarlo di averci dato una mano in questi anni, prima di avere l’occasione in una grande. E allora “Marco Ferrante facci un gol”. Quell’Inter tardelliana, però, è una delle peggiori di sempre. Marco un gol lo farà, bello, dei suoi, una girata ravvicinata, ma tutt’altro che facile, a decidere, in extremis, la sfida interna contro l’Udinese, poi basta.
Estate 2001, raduno al Ruffini. Ferrante è lì, ma la società non lo vorrebbe. Però è lì e quel pomeriggio la curva fa capire cosa ne pensa. E’ fra i più acclamati, lui saluta, sorride. Vogliamo lui in campo con Lucarelli, chi se ne frega di chi vuole il presidente. Camolese, poco lontano, osserva. Marco ha la maglia numero novantaquattro, il numero dei gol segnati con i nostri colori. Quando vado a vedere i ragazzi in ritiro a Cogne, Ferrante è il primo a cui faccio firmare la mia. Il Toro non inizia bene, tutti evochiamo Marco, ci libererà dal male. Camolese, da tecnico magnificamente intelligente, lo rimette in campo. La seconda vita di Ferrante in granata inizia contro il Piacenza, dove non può evitare il disastro. A Genova, in coppa Italia, parte dall’inizio e segna con un’altra girata delle sue. Poi c’è il derby. La storia la sappiamo tutti. Entrano lui e Vergassola e tutto cambia. Il lancio per Lucarelli, il rigore trasformato con una natta impressionante che mi è costata una maglietta strappata (ma me ne accorgerò solo ore dopo, a casa, una volta riprese le corrette funzionalità cerebrali), il colpo di testa da cui è arrivato il 3-3 di Maspero. Col Perugia lo spirito di Maradona si impossessa di nuovo del piede di Marco. Un passo di rincorsa, la palla che scavalca la barriera e finisce nel sette, la corsa a perdifiato verso di noi. Capolavoro degno del Louvre delle punizioni. Il gol storico arriva col Parma, nel recupero della sesta di campionato. Pomeriggio dicembrino, esco dal lavoro e arrivo alla mezzora. Sono in tempo: a fine frazione rigore per il Toro, Frey respinge, ma la palla resta lì. Ferrante la ributta dentro e, come tante volte in cui segna sotto la Scirea, riprende la folle corsa sotto di noi. Ha una maglia in mano. Stavolta c’è scritto cento.
Marco scalda una fretta notte bresciana entrando in campo con Scarchilli e confezionando con lui il gol che inizia la rimonta (splendida conclusione al volo su punizione telecomandata di Alessio), poi fa l’assist per il 2-1 di Vergassola. Ferrante ci prova gusto anche nel fare andare in porta i compagni: invita lui Lucarelli alla sventola al volo che decide la partita con la Lazio. Altro che fratelli De Boer che non si passano il pallone davanti alla porta. Sta diventando anche rifinitore. Al derby segna il gol più bello di tutti. Di fronte c’è una Juventus stellare, ma noi siamo il Toro e stavolta non è un cazzo retorica. Resta il derby giocato meglio degli ultimi venticinque anni. Ferrante segna con un diagonale al volo da posizione difficilissima, angolata. Ricordo solo la coordinazione, poi la palla che si gonfia. Raramente ho provato un livello di gioia e delirio simili. Gol sotto la Scirea, corsa sotto di noi, facendo le corna. Momento iconico, sotto la Maratona un simil torero lo fa passare sotto un drappo granata. Qualcuno, segnando un 2-2 finale con un colpo di testa di puro culo, proverà a imitarlo, a sfotterci, sembrando solo un unicorno sfigato nelle fattezze e una gazzella per come è scappato a fine partita. Dopo quel gol, comunque, Ferrante può fare di tutto per me, anche rapinare le vecchiette. Il Toro si salva, nonostante un calo finale, Ferrante ne fa dieci e il bottino non aumenta solo per tre rigori sbagliati nelle gare contro il Venezia, di cui due al ritorno. Ma chi se ne frega, andiamo in Intertoto. Ferrante segna contro Bregenz e Villareal, ma i rigori in casa del sottomarino giallo ci costano caro (ne sbaglia uno anche lui). Marco quest’anno sceglie il dieci. Sarà un anno terribile per noi. Lui sarà fra i pochi a salvarsi.
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Nel naufragio generale, Marco ci darà una speranza incornando in casa della Lazio il cross dell’esordiente Marinelli. Ci darà un minimo di dignità nelle partite sul neutro di Reggio Emilia, dopo i fattacci in casa contro il Milan, contro Reggina e Perugia. Contro gli umbri, soprattutto, arriva una doppietta in rimonta: diagonale vincente dopo essersi liberato di Di Loreto “alla Ferrante” e azione solitaria con destro a giro vincente. Esultanza di rabbia, di orgoglio, anche se non servirà, e lo sappiamo, ma ogni tanto bisogna dare un segno di vita. 2003/2004. Si torna in B. Si cambia maglia: la numero undici. Con una brutta B ha iniziato, con una brutta B ha finito. Stesso numero di gol: tredici. Un cerchio. Il mostro della serie cadetta a ventiquattro squadre ci regala qualche gioia, il colpo di testa al Palermo di Toni e Corini ci fa pensare in grande. L’altra incornata, contro il Cagliari, con Ferrante che mima una nuotata sotto la curva, pure. Quando al 77’ realizza un rigore al Piacenza in uno stadio letteralmente deserto, non possiamo sapere che sarà il suo ultimo centro contro di noi. Sarà per quello che, l’anno dopo, quando ce lo troviamo di fronte in Toro-Catania, risponde all’assist di Vugrinec con un colpo sotto che scavalca Sorrentino in uscita. Voleva farci vedere ancora una rete sotto la Maratona, tanto sapeva che ne avremmo fatti due, probabilmente. Lui il Toro lo conosceva, lo aveva dentro. Così dentro che in una torrida estate di playoff è lì, a pochi gradini da me, con una polo rosa in mezzo agli ultras a vedere il ritorno delle semifinali fra Toro e Ascoli, quell’Ascoli in cui giocherà l’anno dopo, cavandosela egregiamente, proprio perché verrà ripescato grazie al nostro fallimento, ma allora non lo sa, è lì per tifare Toro, perché se una cosa l’ho capita e se di una cosa sono certo è che Marco Ferrante è uno di noi.
Classe 1979, tifoso del Toro dal 1985 grazie a Junior (o meglio, a una sua figurina). Il primo ricordo un gol di Pusceddu a San Siro, la prima incazzatura l’eliminazione col Tirol, nutro un culto laico per Policano, Lentinie…Marinelli. A volte penso alla traversa di Sordo e capisco che non mi è ancora passata.
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