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Gran Torino

Telenovelas

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Torna un nuovo appuntamento con la rubrica "Gran Torino", a cura di Danilo Baccarani

Nei primi anni Ottanta, il panorama televisivo italiano offriva singolari novità che si affacciavano sui nostri televisori: le tv private locali.

I palinsesti si riempivano di cartoni animati provenienti dal Giappone, telefilm americani di ogni genere, vedevano la luce le prime televendite ma soprattutto i nostri schermi, ancora in maggioranza non a colori, trasmettevano le telenovelas.

Le telenovelas invasero le nostre vite, o meglio quelle delle casalinghe italiane, delle nostre nonne, con il loro carico di drammi, lacrime, amori contrastati.

Da un lato i buoni, gli sfruttati, i diseredati, dall’altro i cattivi, i ricchi, gli sfruttatori: nelle telenovelas, la bipartizione Bene-Male sfociava in un manicheismo ben definito che gridava giustizia e rifiutava l’ingiustizia, voleva l’amore e tifava contro l’odio, sognava felicità e ripudiava il suo contrario.

Nel tempo, il significato di telenovelas ha mutuato il termine in soap opera, pur con caratteristiche diverse: le soap sono state create per durare nel tempo.

Non a caso alcune di esse (provenienti dagli USA) hanno durata decennale, intrecci complessi, storie che si trascinano stancamente per anni mentre le telenovelas sono hanno un tempo limitato e, prima o poi, finiscono.

Nel meraviglioso mondo del calciomercato, il termine telenovela è usato proprio perché la notizia dell’ingaggio di un giocatore, quando viene tirata per le lunghe, assume i contorni patinati del dramma, ma ben si sa che in un modo o nell’altro, quella vicenda, avrà una fine più o meno lieta.

L’amante conquistato

Il campionato 2008/09 nasce sotto auspici molto particolari. Il mercato estivo granata ha vissuto una vera e propria rivoluzione.

Il 23 agosto il sito del Torino Football Club recita: Il Torino Football Club S.p.A. è lieto di comunicare di aver acquisito a titolo definitivo dal Manchester City il diritto alle prestazioni sportive del calciatore Rolando Bianchi. L'attaccante ha firmato un accordo di durata quinquennale.

Sembra incredibile, considerando che durante il precedente mercato invernale, Bianchi fu oggetto delle attenzioni del Toro, con il bergamasco oramai ai margini della sua esperienza in maglia Mancunians.

Sembrava tutto fatto già a gennaio ma la spunta la Lazio di Lotito e Delio Rossi che si assicura le prestazioni del centravanti con un prestito con diritto di riscatto fissato a 12 milioni di euro.

Alla sua prima uscita, ironia della sorte, Toro-Lazio, Bianchi, entrato dalla panchina, fischiatissimo, riesce a farsi ammonire due volte nel giro di cinque minuti e ad uscire dal campo tra le urla di un pubblico raramente così inferocito verso un avversario.

Otto mesi dopo, in un Olimpico effervescente, Ronaldo Bianchi entra nell’arena come l’eroe che torna da un lungo viaggio, una sorta di purificazione dopo l’affronto di qualche mese prima.

Resterà al Toro per cinque anni, collezionando 169 presenze e 71 reti.

Sarà un simbolo e un Capitano con la C maiuscola.

L’amante respinto

Il Toro ha da poco vinto la sua quinta coppa Italia in una notte romana di giugno in cui il sig. Sguizzato di Verona (all’ultima recita della sua carriera) ha provato a giocare il ruolo di guastatore.

Nei primi giorni di luglio del 1993 è tempo, nuovamente, di calcio mercato.

Il Toro del presidente Goveani ha ambizione e punta molto in alto: il nome in cima ai desiderata del tecnico Mondonico e della società granata è uno solo. Ruud Gullit.

Il treccioluto numero 10 del Milan non rientra più nei piani rossoneri e i sondaggi sono da subito assolutamente positivi.

La canicola estiva, un viaggio in Versilia, una chitarra che suona, Gullit e Goveani che cantano: è il preludio ad un matrimonio che s’ha da fare.

Ma è evidente che questi duetti non portino a nulla di buono: Gullit e Goveani, Berlusconi e Apicella, Cremonini e Ultimo…

Ma torniamo a noi.

L’olandese prende tempo. Riflette. Nicchia. Si rifugia in un silenzio di Belottiana memoria.

Poi, dopo una settimana, rende nota la sua decisione: grazie, ma no.

Giorni di tensione, di passione, perché Gullit al Toro sarebbe stato un colpo da maestro, un affare con la A maiuscola.

Le cifre sarebbero state esorbitanti: quattro sponsor esterni erano pronti a innaffiare a pioggia il contratto dell’olandese, per un totale di quattro miliardi delle vecchie lire.

D’altro canto, a fronte di questo esborso, sarebbero cresciuti abbonati e in biglietteria avrebbero avuto di che festeggiare.

Ma le cifre e le speranze furono cancellate in un colpo solo dal niet del centrocampista olandese. Una scelta che costrinse lo stesso Gullit a dare qualche spiegazione.

"Sono arrivato a questa decisione dopo aver valutato alcune ragioni del tutto personali. Naturalmente non sono tenuto a raccontare alla stampa quali siano queste ragioni ma ci tengo a precisare che non è una questione di soldi".

Il mistero che lo voleva diviso tra Germania, Giappone e Genova, venne sciolto qualche giorno dopo, quando il cervo uscì dalla foresta per trasferirsi in riva al mare, sponda Samp.

Fu così che il Toro virò su altri obiettivi. Si parlò di Laudrup, arrivò il Sindaco, l’ex, il cavallo di ritorno, Marco Osio.

Gullit segnò 15 reti in 27 partite di campionato. Tre delle quali contro il Toro.

Amori non corrisposti nel settore nevralgico

Tutto ruota attorno all’amore, motore universale centrale nella vita di tutti gli esseri umani. Centrale come un centrocampista, un organizzatore, un equilibratore, un tuttofare. Tutto ruota attorno a lui in una squadra di calcio.

E quando non hai un calciatore con quelle caratteristiche, ti manca l’amore.

La palla non circola in maniera fluida, la manovra è farraginosa, difficile, complessa, lenta.

Mancano qualità, armonia, ritmo, musica.

A più riprese e in epoche diverse, in quel ruolo, il centrale appunto, il Toro ha provato a conquistare il suo principe granata.

In primis fu il momento di Mozart (mercato invernale campionato 2008/09), brasiliano, ex Reggina, avvistato prima a Malpensa, poi nella hall dell’Atahotel Quark di Milano e infine, in centro a Torino, a bordo di una automobile nera.

Tutto sembrava fatto, contratto compreso, ma in realtà da Mosca non arrivò nessuno.

Citando Fortebraccio: “Si fermò un’auto. Si aprì una portiera. Non scese nessuno. Era Mozart.”

Dieci anni dopo fu la volta di Godfred Donsah. Il calciatore ghanese, all’epoca in forza al Bologna, era reduce da una serie di buone prestazioni che lo confermavano come uno dei crack del campionato.

Walter Mazzarri, appena insediatosi sulla panchina del Toro, ne chiese a gran voce l’acquisto e il corteggiamento fu lungo e serrato.

E come in molte storie d’amore, anche quelle infelici, galeotto fu il telefono.

“Mi ami? Ma quanto mi ami?” recitava il tormentone di un riuscitissimo spot televisivo. Cairo raccontò: "Mazzarri lo ha chiamato al telefono ma non ha risposto. Pare dormisse".

Un’immagine romantica, emblematica e malinconica.

Donsah adesso gioca in Turchia, ha ventisette anni e il suo telefono ha una suoneria super potente.

Rimanendo nello stesso reparto, il profilo rimpianto e a lungo inseguito fu quello di un regista tascabile uruguagio, all’epoca in forza all’Arsenal.

La questione è presto raccontata.

I Gunners volevano disfarsene ma non senza incassare una cifra importante (circa 20 milioni di euro) per far posto ai muscoli e alla stazza del ghanese Thomas Partey che chiunque vorrebbe avere come amico, soprattutto in una eventuale rissa.

Sulla panchina del Toro, nell’estate meno indicata a stravolgimenti tattici, c’era Marco Giampaolo, l’inflessibile e dogmatico Maestro, innamorato del suo imprescindibile modulo 4-3-1-2.

Le sue richieste: due esterni di corsa e gamba, un regista, un trequartista.

La figura designata dal tecnico di Bellinzona, per ricoprire il ruolo che in Sudamerica è chiamato Volante, fu quella di Lucas Torreira.

Giampaolo lo aveva allenato ai tempi del Doria e insistette per riaverlo alle sue dipendenze.

Altrettanto ovviamente, i corteggiatori con cui duellare non mancarono.

Fu un amore travagliatissimo, un sentimento contrastato in primis dall’Arsenal e dal perfido Don Mikel Arteta, potentissimo e cattivissimo signore spagnolo del Nord di Londra.

Il Toro battagliò con la Fiorentina, ma dalla Spagna giunse la notizia che sparigliava le carte.

Ancora una volta, al telefono, si definirono i contorni di questa fallimentare storia d’amore: da un capo il Signore della Madrid Colchonera, Diego Simeone, dall’altra Torreira.

Il Toro che stava alla finestra, anelando il centrocampista, si spinse (così dissero i media) ben oltre le sue Colonne d’Ercole finanziarie, ma non bastò.

Atletico e Arsenal definirono un prestito, tanto secco quanto terrificante per la società granata e per Mister Giampaolo.

In questa storia, c’è spazio per raccontare di Thomas Partey che si trasferì all’Arsenal per la modica cifra di 50 milioni.

Il Toro adattò Tomas Rincon nel ruolo, con risultanti sconfortanti.

Lucas Torreira dopo l’assurda esperienza di Madrid giocherà alla Fiorentina e ad oggi milita nel Galatasaray con la Lazio interessata a riportarlo in Italia.

Giampaolo non ha perso le speranze e lo vorrebbe nel suo salotto.

Il calcio che conta

Estate 2014.

Il Toro torna in Europa (dalla porta di servizio) dopo dodici anni e la squadra allenata da Giampiero Ventura ha in Ciro Immobile e Alessio Cerci i suoi due alfieri.

Il campionato appena concluso ha decretato che il primo è stato la dinamite e il secondo è stato la miccia.

Se la dipartita del primo è stata un cerotto strappato in fretta e furia, quella del secondo fu un lungo addio costellato di situazioni kafkiane.

Cerci era l’oggetto del desiderio di molte squadre.

La narrazione è chiara sin da subito: “Non si tarpano le ali a chi vuole spiccare il volo.”

Molto più prosaicamente, Il ragazzo vuole andare via, il Toro non può trattenerlo, non può alzargli l’ingaggio e pregusta il lauto incasso.

Da una parte la storia d’amore sta finendo e c’è chi vuole scappare ma Cerci è la bella di Torriglia: tutti la vogliono e nessuno se la piglia.

La Roma, dove lui tornerebbe a piedi (essendone tifoso) si era defilata, il Milan (sogno proibito) aveva fatto un’offerta non ritenuta congrua, mentre sullo sfondo resistevano le suggestioni estere, con il Monaco e l’Atletico Madrid in testa.

Fu un tira e molla snervante.

I tifosi conoscevano in anticipo il finale di questa storia, senza sapere come e quando.

Meglio subito, dissero alcuni, mentre altri preferirono aspettare e sperare che l’addio saltasse per qualsivoglia motivo.

A metà agosto, come un temporale estivo, un fragoroso quanto inatteso tweet dello stesso Cerci annunciò urbi et orbi, l’addio al Toro.

Il Thierry Henry di Valmontone cinguettò: “Accordo raggiunto con l’Atletico Madrid, ringrazio Torino e i suoi tifosi per tutto.”

Si era in piena estate ma dopo quelle parole cadde il gelo.

Pochi minuti dopo però, da Twitter e dalla rete, quelle stesse parole erano evaporate, svanite.

Cosa era successo?

Cerci raccontò: “Non ho pubblicato io quel messaggio. Stavo giocando alla Playstation, qualcuno è entrato su Twitter e ha scritto una cosa falsa. Ho ricevuto tantissime chiamate, tantissimi messaggi, mi ha chiamato anche l’addetto stampa del Torino ma io sono letteralmente cascato dalle nuvole. Comunque provvederà, vediamo chi è entrato nel mio profilo. La password ce l’ho solo io, non capisco come sia potuto accadere. Non esiste al mondo una cosa del genere, di mercato si può parlare ma io non l’ho scritta e non l’ho neanche cancellata. Andrò per vie legali.”

All’ultimo giorno di mercato e, sul gong, Cerci divenne un calciatore dell’Atletico Madrid.

Una scelta incomprensibile dal punto di vista tattico ma comprensibilissima dal punto di vista di Cerci (che va a giocare la Champions e va a guadagnare molto di più).

La ciliegina su una torta dal retrogusto amaro (perché per Cerci che parte c’è un Amauri che arriva, argh!), la mette Lady Cerci, al secolo Federica Ricciardi, all’epoca fidanzata del calciatore neo Colchonero: “Saluti Serie A, noi ce ne andiamo nel calcio che conta.”

A quel punto, a giochi fatti, lo sfogo sembrò fuori luogo e la rete, che tutto ricorda e niente perdona, lo accantonò soltanto momentaneamente, attendendo sulla riva del fiume.

Il fallimento dell’ala romana, in una squadra che faceva dell’intensità e della ferocia agonistica le sue armi migliori, sembrò la logica conseguenza di una scelta sbagliata.

Non sappiamo ovviamente se Cerci avesse avuto alternative diverse o migliori, ma il karma si abbatté violentemente aggiungendo un velo di tristezza, spalancando le porte all'irrimediabile declino.

Cerci peregrinò per l’Italia (Milan e Genoa), poi tornò a Madrid, approdò a Verona, fece qualche apparizione in Turchia, ad Ankara, proseguì a Salerno e chiuse ad Arezzo una carriera che avrebbe meritato una sorte migliore.

In questo giro infinito, Cerci trovò il tempo Il 13 marzo 2016 di segnare due gol, entrambi su calcio di rigore, nel match vinto dal Genoa per 3-2, proprio contro il Toro.

Prima però fu amore e Cerci lo testimoniò con un tatuaggio: 13-04-14, minuto 47:47 2T è lì sul suo petto.

Non vi ricordate di cosa si tratta? Toro-Genoa 2-1. Vittoria in rimonta, negli ultimi due minuti di gioco, con gol all’incrocio di Alessio.

L’amore fu meraviglioso, l’addio no. Perché gli addii migliori sono quelli più brevi.

Ad un anno campione d’Italia, cresciuto a pane e racconti di Invincibili e Tremendisti. Laureato in storia del Cinema, innamorato di Caterina e Francesco, sposato con il Toro. Ho vissuto Bilbao e Licata e così, su due piedi, rivivrei volentieri solo la prima. Se rinascessi vorrei la voleé di McEnroe, il cappotto di Bogart e la fantasia di Ljajic. Ché non si sa mai.

Attraverso le sue rubriche, grazie al lavoro di qualificati opinionisti, Toro News offre ai propri lettori spunti di riflessione ed approfondimenti di carattere indipendente sul Torino e non solo.

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