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Underdog: il destino appartiene agli ultimi della lista

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Un nuovo appuntamento con "Loquor", la rubrica a cura di Carmelo Pennisi

“Da bambino ero sempre l’ultima opzione”. Tom Brady

Mi sono sempre chiesto chi siano realmente le persone migliori, quelle che fanno la differenza e indicano il luogo giusto dove andare, il gesto migliore da offrire, l’espressione migliore da assumere, quelle che in un momento preciso della tua storia sanno guardarti negli occhi e dirti: “c’è qualcosa di speciale in te, e non vedo l’ora di scoprire di cosa si tratta”.

Dick Vermeil ha immaginato il football americano dalla parte opposta di Tony D’Amato/Al Pacino, suo collega di fantasia disegnato da Oliver Stone in “Ogni maledetta Domenica”. Per il coach californiano non c’è mai stato un inferno da cui uscire, non ci sono mai state persone che gli volevano bene cacciate, e nemmeno uno sperpero ad libitum di soldi. Il football americano di Vermeil è anche lontano miglia di distanza dal “momento sospeso” di cui parla Leigh Anne Tuohy/Sandra Bullock in “The Blind Side”, visto come la sua visione è stata andare continuamente a caccia dell’inverosimile al fine di renderlo credibile. In lui non c’è mai stato il “paraculismo” dello sport diventato evento pubblicitario planetario, le frasi fatte da filosofo della “Reader’s Digest” destinate alla platea illusa, disillusa e poi illusa dai dispensatori di “camere con vista” psichedeliche.

Questi ultimi si accomodano su una panchina, accendono il turbo dei loro fuochi d’artificio spacciati per idee, e poi fanno firmare ai proprietari ricchi assegni sul mercato giocatori, convincendo media e appassionati di andare a caccia di bellezza. Il football d’oltre oceano è qualcosa che va capito e rovistato tra le sue esplosioni dove ogni osso che scrocchia dà il tempo al “Quarterback” di pensare in quale linea d’aria verrà fatta carambolare la palla ovale. Siamo al concetto di “frontiera” dove la “tasca”, il semicerchio creato attorno al “Quarterback”, è ogni volta il “7imo Cavalleria” del generale George Armstrong Custer intento a cercare di dare un destino diverso alla battaglia di “Little Big Horne”. In ogni centimetro delle “yard” (o delle iarde, fate voi) c’è il racconto dello Stato più controverso della storia, il suo essere buono e cattivo, con l’ansia di essere leader perché conscio della sua grandezza. L’America non ha ripensamenti anche quando realizza di aver sbagliato, avendo chiara la convinzione come ogni meta cancelli ogni dolore, ogni dubbio e persino ogni peccato.

Il Football è la bandiera a “Stelle e Strisce” che prende di petto il mondo e lo costringe a pensare esclusivamente all’obiettivo. Si vola sopra la “Statua della “liberta” e si arriva, passando per il “Campidoglio”, fino alla “Casa Bianca”, dove il Presidente sancisce la validità sempre attuale dello spirito della “Frontiera”. In questo pentagramma dell’esistenza non conta vincere, ma conta il coraggio con cui hai provato a farlo. Essere arditi fa parte della vittoria, che altrimenti sarebbe monca e non degna di essere ricordata. Qui lo sport si sublima, vincendo ogni disincanto irriverente che lo vuole “panem et circensens” per platee ammaestrate. Dick Vermeil in tale sublimazione ha saputo dare un valore quasi letterario alla figura dell’underdog, ovvero colui/lei dato per sfavorito/a capace di sovvertire ogni pronostico di sconfitta. Vince Papale era inchiodato al bancone di un bar, Kurt Warner si stava immalinconendo tra gli scaffali di un supermercato, e questo momento della loro storia ricorda come prima di arrivare a quel che si vuole fare, a volte (direi quasi sempre) bisogna fare quel che si deve fare. Più che sfavoriti, i due agli occhi del mondo circostante sono dei velleitari eternamente volenterosi ad immaginarsi un futuro nel football che non avranno mai. “Devi imparare a restare calmo e concentrato dentro la Tasca mentre un muro di umanità crolla intorno a te”, in questo racconto di Kurt Warner si capisce il senso di una scalata verso un obiettivo   apparentemente impossibile. Vince Papale ha giocato nei “Philadelphia Eagles” solo tre anni, ma realizza il sogno del cassetto di ogni tifoso: giocare per la squadra del cuore.

Nel 1975 Philadelphia non se la passa affatto bene, la più violenta crisi economica del secolo sta facendo chiudere le fabbriche e sta letteralmente radendo al suolo ogni tipo di possibilità di lavoro. Gli “Eagles”, l’amatissima squadra di football della città, sono quindici anni che non riescono a raggiungere i playoff, e Papale è appena stato mollato dalla moglie con un biglietto d’addio trasfigurato in spietata sentenza: “non andrai da nessuna parte, non diventerai mai nessuno e non farai mai soldi”. Le uniche cose ad essergli rimaste sono gli amici e il campo polveroso in cui con loro gioca a football immaginandosi di essere un “Eagles”. “Mi sono smarrito in un sogno cercando qualcosa che non esiste”, scrive Gabriel Garcia Marquez; è la sensazione di trovarsi incastrati dentro un labirinto dove senti avvicinarsi la furia del Minotauro e ancora non si è visto Teseo con il filo della sua amata Arianna, ideato per farti uscire dal dedalo contrito di tutti i tuoi sentimenti e sconfitte. All’apogeo della depressione in cui è caduta una delle città più dure d’America, all’uscio degli “Eagles” si presenta Dick Vermeil, uno che non risolve semplicemente le cose impossibili, ma scorge il “possibile” sepolto sotto l’invisibilità del fallimento.

Ci sarebbe molto da dire sull’epica degli “Eagles” di Vermeil, costretti da scelte sbagliate di gestione precedenti a non poter fare per qualche anno le scelte migliori nei “Draft”(il complicato sistema con cui le squadre delle leghe professionistiche ingaggiano i giocatori dai college universitari), ma basti sapere come dal cilindro delle occasioni perdute il coach di Calistoga fa uscire fuori, da dei provini fatti a tutti gli scartati e dimenticati di questo incredibile sport, un ragazzone nato e cresciuto a “South Phillys” (il rifugio dei diseredati della città dove fu firmata la Dichiarazione d’Indipendenza), il “dimenticato” da tutti i “draft” possibili, l’ormai trentenne rassegnato a rimanere barman e a vedere la “NFL” in tv, e fa vivere a Papale e a Philadelphia tra i tre anni migliori della loro vita sportiva. La necessità di chi “ti trova”, di chi ha la capacità di “vederti”, di chi non si fa corrompere dalle necessità del mercato e degli interessi, occulti o palesi che siano, è molto più importante del talento: è la giustizia di un infinito necessario. Lo sa bene Kurt Warner, che ancora oggi stenta a raccontare la sua storia per come anche ai suoi occhi sembra impossibile sia realmente accaduta. Da bambino si innamora di Joe Montana, leggendario “Quarterback” dei “San Francisco 49ers” e anche lui sbocciato sorprendentemente partendo dal numero 82 del “terzo giro” del “Draft” del 1979. Praticamente viene considerato uno da panchina, nella follia di uno sport che lo eleggerà uno dei più grandi di tutti i tempi.

A Warner va peggio, molto peggio; non c’è un “Draft” ad attenderlo e nemmeno un grande destino, molti lo considerano troppo gentile per uno sport che si aspetta tu giochi “come se qualcuno avesse colpito tua madre”. Non c’è perseveranza, abnegazione, duro lavoro e fede assoluta in Dio a poter cambiare il corso negativo delle cose, c’è la resa confluita prima tra gli scaffali di un negozio di generi alimentari e poi nell’Arena Football League, una sorta di “Harlem Globetrotters” della palla ovale in formato indoor. “Sono finito al circo, ma abbiamo bisogno di soldi, ed io so solo giocare a football”, dice, amareggiato, Warner alla moglie Brenda, conscio come a 27 anni, nella “NFL” e nello sport in generale, i sogni non possano più bussare alla tua porta. Ma è una resa al netto di Dick Vermeil, il rabdomante del talento che sa come il football sia un gioco di errori, dove vince chi ne commette meno. Tornato ad allenare sedici anni dopo l’esperienza degli “Eagles”, il coach più atipico su piazza, pur di trovare chi può fare la differenza, fa scandagliare dal suo “scouting” anche l’Arena Football League, scovando e ingaggiando Kurt Warner contro il parere della grande stampa e di tutto il suo staff. Ci vuole coraggio, ci vuole intelligenza, ci vuole capacità a rendersi impermeabile al coro solerte ad incoronare solo chi considera elite, ci vuole determinazione nell’agire.

È Dick Vermeil, signori, e lancia nel firmamento dello sport USA un ragazzo quasi vecchio, facendolo diventare il più grande giocatore della storia del Football Americano mai passato dai “Draft” e uno dei più grandi “Quarterback” di sempre. Dai 5,50 dollari l’ora di addetto agli scaffali di un negozio di generi alimentari, Warner passa a contratti da 18 milioni di dollari l’anno, riuscendo a vincere un “SuperBowl”, dove viene eletto “MVP” (miglior giocatore). L’aristocrazia designata e cooptata non è mai passata dalle parti di Vermeil, e a distanza di anni dal suo ritiro rimane scolpito nelle pietre senza età il suo insegnamento più importante: abbiamo il dovere di “trovare”, e il bisogno di essere “trovati”, perché “il destino appartiene agli ultimi della lista”. A nome di tutti quelli che ce l’hanno fatta e di tutti coloro che non smettono di pensare di farcela: Grazie Dick.

Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.

Attraverso le sue rubriche, grazie al lavoro di qualificati opinionisti, Toro News offre ai propri lettori spunti di riflessione ed approfondimenti di carattere indipendente sul Torino e non solo.

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