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Parliamo di Alex Schwazer e Brian Banks

ROME, ITALY - MAY 08:  Alex Schwazer celebrates after winning the 50KM Race Walk at IAAF Race Walking Team Campionship Rome 2016, on May 7, 2016 in Rome, Italy.  (Photo by Tullio M. Puglia/Getty Images for IAAF)

Loquor / Torna l'appuntamento con la rubrica a cura di Carmelo Pennisi: "Le storie del marciatore Alex Schwazer e del giocatore di football americano Brian Banks, pur se nelle logiche differenze, presentano analogie impressionanti"

Carmelo Pennisi

"“Alle antiche sere e alla

musica lontana”.

"I Ponti di Madison County

Giustizia è una parola polisemica, cioè portatrice di più significati, e forse è per questo da sempre è così difficile contestualizzarla nella vita di tutti i giorni. Ulpiano, che fu uno dei maggiori giureconsulti romani, prova a definirla così: “La giustizia è la ferma e costante volontà di dare a ciascuno ciò che gli spetta di diritto”. A voler dar retta ad Ulpiano, sembrerebbe come la giustizia sia esclusivamente qualcosa di commutativo, distributivo e retributivo. Ma la vita, al solito, è qualcosa di più di un formalismo giuridico pur necessario alla convivenza, che messo in mano a giudici e avvocati finisce inevitabilmente per livellare cinicamente ciò che non si può sanare.

La vita è segnata dal tempo, che notoriamente scivola via come la sabbia tra le mani. E il tempo, ed è quasi banale ricordarlo, non può essere risarcito a nessuno, perché una volta passato, è passato. Le storie del marciatore Alex Schwazer e del giocatore di football americano Brian Banks, pur se nelle logiche differenze, presentano analogie impressionanti. Sono in primo luogo delle storie dove, per lungo tempo, le loro reputazioni sono state messe alla gogna e distrutte per reati come il doping e lo stupro. Il fatto che fossero, al momento dei presunti reati, delle persone note non ha fatto che aumentare la pressione negativa su delle vite venute su per eccellere e per brillare nel firmamento dello sport. Ma a volte bastano pochi istanti per capovolgere un firmamento, e farlo precipitare nell’abisso della disperazione senza nessuna possibilità di redenzione.

Il malcapitato Banks, star del football americano delle scuole superiori (roba molto seria dalle parti dello “Zio Sam”), aveva appena vinto una borsa di studio per la “University of Southern California” quando gli viene comminata una condanna a dieci anni per aver stuprato Wanetta Gibson, una sua compagna di scuola. Tutto pare essere contro il promettente giocatore di colore, anche perché un pessimo consiglio legale lo persuade a patteggiare al processo, omettendo, tra le altre cose, di metterlo al corrente della terribile macchia di “stupratore” che gli sarebbe rimasta addosso per sempre, in qualsiasi attività lavorativa avesse deciso di intraprendere dopo la galera. Banks patteggia nella speranza di risolvere tutti i suoi problemi in pochi mesi, e riprendere così la sua carriera di giocatore di football. Ma la Corte chiamata a giudicare il caso non è dello stesso avviso, decidendo di chiudere per dieci anni i sogni di Banks dentro ad una cella. E il tempo comincia a scorrere inesorabile per l’atleta californiano, consapevole come lo sport agonistico, per la sua natura intrinseca legata ad un solo tempo della vita, difficilmente può regalare redenzioni a lunga scadenza. Il treno verso la gloria su cui stavi per salire parte senza di te, lasciandoti in completa solitudine su quel binario gravido di promesse scintillanti alle quali probabilmente non potrai più accedere. Per Solone la giustizia è la salute di una comunità, ma al pensatore greco mancavano dati e quindi non aveva la possibilità di immaginare una società complessa come quella contemporanea, dove è praticamente impossibile avere diritto all’oblio. Anche perché, come ricorda lo scrittore americano John Michael Green in “Cercando Alaska”, “è difficile dimenticare qualcuno che ti ha dato molto da ricordare”. In certi momenti si vorrebbe urlare “ma cosa vi importa di me!”, persi nello stress di essere sotto l’osservazione morbosa della pubblica opinione, visto che poche cose al mondo sono più affascinanti della caduta di una stella.

Lo sa bene, ormai, il marciatore Alex Schwazer, che a soli 37 anni ormai può vantare una vita pronta per essere traslata in un film da qualche Major cinematografica americana. Nel 2008 vince l’oro olimpico a Pechino nella 50km di marcia, e viene criticato dagli Schutzen (milizia di difesa territoriale del SudTirolo) per atteggiamenti troppo italiani, questione abbastanza delicata nelle vicende della vita di quel lembo d’Italia da sempre nostalgico del passato austriaco. Poi si fidanza con un’altra star dello sport nata e cresciuta tra coloro che si ritengono tutt’oggi discendenti esistenziali di Klemens von Metternich, che considerava l’Italia una mera espressione geografica. È la coppia del momento, e probabilmente nei piani alti della politica qualcuno spera in un nuovo Risorgimento italiano nel SudTirolo, fasciando con la bandiera italiana la coppia glamour dello sport invernale del BelPaese. I sogni son desideri, e muoiono all’alba di una notte tempestosa, ma è veramente difficile comprenderlo nella sbornia di reciproci interessi. Il duo Schwazer/Kostner ci prende evidentemente gusto, e nonostante parlino un italiano alla Karl Heinz Rummenigge, indimenticato attaccante tedesco dell’Inter, si immolano nel sogno della nuova Italia all’alba di un terzo millennio abbacinato dall’idea di un Europa senza frontiere.

Parrebbe una favola dei fratelli Grimm, dove i cattivi e gli invidiosi fanno sempre una brutta fine e le buone intenzioni trionfano. Ma il bisogno di avere un concetto di giustizia, nasce proprio perché la vita sovente si sostituisce alle favole come paradigma di un incubo, e i 4 anni da favola di Schwazer vanno a infrangersi, nell’agosto del 2012, contro le trappole a sorpresa sparse qua e là dall’Agenzia Mondiale Antidoping (WADA). L’annuncio della positività dell’atleta altoatesino all’eritropoietina giunge come una mazzata su tutto il mondo, da tempo asfittico, dell’atletica italiana. La discesa verso l’Inferno della coppia glamour dello sport italiano è così rapida, da far venire la tentazione di non credere più a nessun tipo di favola. Nemmeno a quella di Babbo Natale. È la rottura della connessione dell’immaginazione collettiva con i buoni sentimenti, dove la Kostner non è più la Bella Addormentata nel Bosco, risvegliata a vita nuova dal suo bel Principe, ma solo una complice di Schwazer nel coprire i suoi tentativi di evitare i controlli a sorpresa della Wada. Il marciatore, in una conferenza stampa drammatica, si pente tra le lacrime del suo dissennato essersi rivolto a pratiche dopanti, e giura e spergiura sulla “pulizia” della sua medaglia d’oro olimpica. Ma nessuno gli crede più e la storia d’amore con Carolina, dolce e quasi utopica come uno spot della Ferrero, finisce come un testacoda esistenziale di un qualsiasi film drammatico. Ci vuole un po’ a capire, per chi ha voglia e la necessaria pazienza, come Schwazer decida di dare alla parola “giustificazione” non il significato banalizzante di un maldestro tentativo di discolpa, ma il senso biblico di “farsi giusto” (“se justum facere”), ovvero “diventare giusto”, moralmente retto, in un percorso dove l’atto finale è diventare amico di Dio.

Conseguenza logica è quella di rivolgersi a Sandro Donati, uno dei più importanti allenatori di atletica del Paese e tenace nemico di ogni pratica antidoping. Donati sarà il suo garante nel tentativo quasi impossibile di una sua riabilitazione sportiva. L’obiettivo è quello di ritornare competitivo nell’attività agonistica al termine della squalifica stabilita per il 29 aprile 2016. L’8 maggio 2016 torna a correre e vincere nei “Campionati del Mondo a Squadre di Marcia” organizzati a Roma. Sembra l’inizio di una resurrezione, la dimostrazione chiara al mondo che si può vincere anche senza aiuti chimici. Le olimpiadi di Rio de Janeiro sono alle porte, e Schwazer sogna. Ma il 21 giugno viene annunciata la positività del campione altoatesino ad un controllo antidoping, ed è l’ennesimo sogno infranto. Ma stavolta Schwazer, spalleggiato dall’autorità morale e scientifica di Donati, nega tutto e si fa strada la teoria di un complotto. Ma non c’è niente da fare, e la squalifica comminata è di 8 anni.

Le storie di Brian Banks e Alex Schwazer hanno un apparente lieto fine, perché due tribunali, uno in California l’altro a Bolzano, li scagionano dalle accuse infamanti “per non aver commesso il fatto”. Sul caso di Schwazer la motivazione del Gip di Bolzano è addirittura inquietante e segna l’inizio di un nuovo capitolo della storia: “I campioni di urina (di Schwazer) sono stati alterati allo scopo di farli risultare positivi e, dunque, di ottenere la squalifica e il discredito dell’atleta come pure del suo allenatore, Sandro Donati”. Il futuro dirà, si spera, cosa ci sia di vero in queste pesanti accuse di un tribunale italiano. Ma il tempo… il tempo continua a scorrere e non c’è giustizia, con tutta la sua accezione polisemica, a poter restituire a Banks e a Schwazer ciò che gli spetterebbe di diritto, perché quest’ultima cosa è proprio il tempo ad essersela portata via. Sperando come queste due storie siano da monito alle coscienze di giudici, avvocati, giornalisti e pubblica opinione, vorrei mandare a Brian Banks e ad Alex Schwazer una specie di cartolina digitale, con su scritto un bel pensiero tratto da “I Ponti di Madison County”: “I vecchi sogni erano bei sogni. Non si sono avverati, comunque li ho avuti”. I bei pensieri non risolvono, ma accarezzano l’anima. In assenza di altro, potrebbero essere una buona panacea da contrapporre a momenti disperati. Proviamoci.

Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.

Attraverso le sue rubriche, grazie al lavoro di qualificati opinionisti, Toro News offre ai propri lettori spunti di riflessione ed approfondimenti di carattere indipendente sul Torino e non solo.