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La tempesta perfetta

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Torna un nuovo appuntamento con la rubrica "Gran Torino", a cura di Danilo Baccarani

Credo di aver preso più pioggia solo in Olanda. Un mese di lavoro tra Groningen e Arnhem, una pioggia da impazzire, giorno e notte.

Eppure, in quella sera di coppa Italia, al vecchio Comunale ne presi davvero tanta. Se, per quella ricetta, uniamo un pizzico di delusione, una quintalata di rimpianti e qualche moccolo a scelta, credo che nessuno possa dimenticare Toro-Samp, 2-1, finale di ritorno di Coppa Italia 1988.

Non servirono gli ombrelli e i k-way, la pioggia invadeva spalti e campo come raramente accaduto: è il 19 maggio e benedetto sarebbe, ai tempi odierni, qualche giorno piovoso come quello. Nella partita di andata, i riccioluti, Briegel e Vialli hanno regalato ai doriani una netta vittoria per due reti a zero. Si giocò alle quattro del pomeriggio in un Marassi dimezzato dai lavori per Italia90 e quella finale di andata viene ricordata per alcune decisioni arbitrali alquanto discutibili.

Genova per noi, per dirla con le parole del maestro Conte, ci lasciò quella faccia un po’ così, diciamo dubbiosa, a causa della direzione di Paolo Casarin. Deve esserci qualcosa di diabolico a Marassi, forse di maledetto, se ripensiamo anche a all’altro arbitraggio “un po’ così”, quello di Barbaresco di Cormons, che ci costò uno scudetto nel 1972. Sarà quel che sarà, ma Genova, quel pomeriggio, per noi, fu davvero stregata.

Perdontemi, se sono passato da Paolo Conte ai Ricchi & Poveri in poche righe, avrei dovuto risparmiarvelo.

A distanza di due settimane, si gioca al Comunale, con la speranza di rimontare un risultato piuttosto complicato. C’è aria di corrida e già nella partita di andata ci sono stati scontri rudi, qualche eccesso e qualche fallo di troppo che avrebbero meritato decisioni e sanzioni diverse. Si parte esattamente come due settimane prima e se a Genova erano stati i blucerchiati a mettere il turbo, qui è il Toro che carica a testa bassa e la sua pressione si fa insistente sin dalle prime battute di gioco.

Lo stadio Comunale assomiglia ad una gigantesca Arca di Noè. Piove sugli spalti e il manto erboso si trasforma subito in una paludosa trappola di fango che fagocita palloni e uomini. Le squadre fanno fatica ad addomesticare il pallone, i rimbalzi sono imprecisi, le pozzanghere rallentano il ritmo e annullano la fantasia. Il Toro non si scompone, bada al sodo e schiaccia sull’acceleratore anche perché, se il tempo atmosferico non aiuta, il cronometro non è di certo dalla nostra parte.

Spinti da oltre trentamila persone, i granata non si fanno pregare e dopo appena cinque minuti grazie ad una progressione potentissima di quel cingolato pesante che era Toni Polster creano un pericolo per la porta di Pagliuca. L’austriaco è uno dei pochi a suo agio su questo terreno infido e fugge sulla sinistra in anomala posizione di ala, supera Mannini e crossa per l’accorrente Gritti. Vierchowod, in spaccata, anticipa l’attaccante granata ma devia il pallone alle spalle del proprio portiere. Segno del destino o semplicemente errore dovuto alla pressione?

Poco importa, siamo 1-0. Metà del lavoro è fatto e sono trascorsi cinque minuti. Le pozzanghere aumentano, la palla corre a fatica, la pioggia non accenna a smettere. La partita sta prendendo una piega pessima per i nostri avversari che dopo quel benedetto autogol sono costretti a eseguire ben due sostituzioni tra il 26’ e il 28’. Escono Briegel e Pellegrini, entrano Paganin e Salsano. Se fossimo un po' meno banali, potremmo dire che in casa Samp, piove sul bagnato visto che al 35’ è proprio Paganin a deviare nella propria porta una bordata di Comi.

Altra autorete per il momentaneo due a zero. Pagliuca è spiazzato e il Toro ha completato la sua rimonta.

La malasorte della Samp però, finisce qui e nè lei, né il Toro sono in grado di assestarle il colpo del ko. Il Toro cala alla distanza e sfiora il terzo gol ma se Pagliuca ci mette del suo e anestetizza Gritti e Sabato, con il passare dei minuti, la Samp, più fresca e riposata, approfitta della situazione e prende il comando delle operazioni. Il terreno, sempre più simile a quello dove si svolge Glastonbury, è di color marrone, l’erba riaffiora qua e là in zolle arate dai tacchetti dei ventidue contendenti.

La Samp sale di tono. Per farla breve: prima ci hanno fatto sfogare e poi ci hanno preso per stanchezza.

Non mancano occasioni da entrambe le parti, ma quella più nitida è quella di Comi che supera Pagliuca con un lento pallonetto che trova pronto sulla linea lo Zar Vierchowod. Cerchiamo il tris con Crippa e Polster ma non ne abbiamo più.

In curva sotto la coltre di ombrelli si respira un’aria strana, quella della beffa. Non che non fossimo abituati ma la sorte con noi si diverte ogni volta a trovare modalità nuove e fantasiose per spezzare i nostri sogni. Era solo il 1988 e non avevamo ancora visto i tre pali di Amsterdam, certi derby persi al centosettantottesimo minuto di recupero su una nuova norma relativa al fuorigioco, gol di improbabili marcatori (ma vi giuro che su questo argomento un giorno scriverò un libro) e sfighe in serie che siamo stati in gradi di affacciarsi sopra il nostro capino.

Non eravamo certo dei novizi della sfortuna e del fato avverso e l’avvicinarsi lento e inesorabile dei calci di rigore appariva ai più come un evento naturale con cui perdere, per l’ennesima volta la Coppa Italia.

Questa è la nostra quarta finale negli ultimi nove anni. L'abbiamo persa due volte ai rigori con la Roma e una volta contro l’Inter per un totale di tre volte in fila. Però, questa volta, il destino ci vuole premiare in maniera straordinariamente fantasiosa. Quasi a volersi accanire, in un gioco sadico, a condannarci è un giocatore che molto probabilmente non sarebbe entrato in campo se non ci fossero stati quei due infortuni prematuri. Il suo nome è Fausto Salsano.

Campano, motorino instancabile di quella Samp anni Ottanta, centrocampista minuto, uomo ovunque per la sua capacità di sdoppiarsi in più ruoli. Proprio lui, Fausto Salsano, un gregario, pesca il jolly che decide la Coppa Italia. In curva siamo nella foresta pluviale. Ho acqua ovunque perché l’acqua è ovunque. I più accaniti fumatori inventano nuove strategie per non bagnare le loro sigarette. Si gioca in una palude. Pagliuca rilancia il pallone. Ricordo nitidamente che ci furono molti rimpalli sulla nostra trequarti. Cerezo, con la sua tipica andatura caracollante e con i pantaloncini marroni per il fango, esce vincitore da questo simil tamburello. Il brasiliano si defila, spinge avanti a fatica il pallone e poi lascia partire un cross totalmente innocuo. Un cross lento sul quale si avventa Benedetti. Il colpo di testa del biondo è goffo, il rinvio è corto e termina la sua corsa al limite dell’area, all’intersezione tra linea dell’area e lunetta della stessa.

Lì, appostato esattamente al limite, c’è Salsano. Il giocatore della Samp stoppa il pallone di sinistro. Il pallone rimbalza nell’unica zolla di campo regolare e si sistema esattamente sul collo del piede. Senza quel rimbalzo perfetto, la sfera gli rimarrebbe troppo sotto e lui con il suo fisico da canarino, per tirare, dovrebbe ingobbirsi. Invece quel rimbalzo perfetto, nell’unico centimetro quadro di campo perfetto, lo aiuta a coordinarsi e Salsano colpisce con un bel collo sinistro.

Il tiro ha una parabola diretta: parte teso e scende un istante dopo per infilarsi esattamente sotto la traversa. Lorieri, forse, è avanti di un passo, forse si è spostato lì perché vuole evitare il fango che c’è sulla linea di porta, forse ha bisogno di una parte di campo più dura per spingere e compiere uno dei suoi soliti balzi salvifici. Nel 1992/93 la Panini lo omaggerà dedicandogli un suo splendido, e altrettanto coreografico volo, ma non è questo il caso.

Lorieri esegue sì, una delle sue migliori coreografie ma non riesce a intercettare la beffarda traiettoria della palla. Il boato sordo dei tifosi doriani, la pioggia che non accenna a smettere. Il Toro non ne ha più e noi, sugli spalti, nemmeno. Come se non bastasse, bisognerebbe segnare addirittura due reti e mancano pochi minuti alla fine della partita che termina assegnando la coppa al Doria.

Il giorno dopo, a scuola, non si parla d’altro, di quel tiro e della sua maledetta traiettoria. Il tiro alla Salsano e il volo di Lorieri. Ironia della sorte, Salsano segnò un solo gol in quella competizione. Ai giardinetti ogni tanto per esorcizzare quella delusione, ci provavamo anche noi, per dimostrare che potevamo indovinare il tiro della domenica in maniera tanto casuale quanto inaspettata.

La pioggia, il tiro di Salsano, la coppa che vola a Genova e i doriani che festeggiano in campo e sugli spalti.

Uscimmo dallo stadio sotto il diluvio universale per la cosiddetta tempesta perfetta.

Ad un anno campione d’Italia, cresciuto a pane e racconti di Invincibili e Tremendisti. Laureato in storia del Cinema, innamorato di Caterina e Francesco, sposato con il Toro. Ho vissuto Bilbao e Licata e così, su due piedi, rivivrei volentieri solo la prima. Se rinascessi vorrei la voleé di McEnroe, il cappotto di Bogart e la fantasia di Ljajic. Ché non si sa mai.

Attraverso le sue rubriche, grazie al lavoro di qualificati opinionisti, Toro News offre ai propri lettori spunti di riflessione ed approfondimenti di carattere indipendente sul Torino e non solo.

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